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COSE… TURCHE – P.1 ..by Luciano De Dionigi

FIAT 500
LE VOSTRE RECENSIONI
“Nell’estate 1967 avevo una ragazza, e fin qui niente di strano. La ragazza era pure belloccia, e già questo era più strano, considerato che non assomigliavo affatto ad Alain Delon; la ragazza mi scaricò dopo qualche tempo, e qui torniamo nella regola... ma questa è un’altra storia.
Nell’estate 1967 - in questo tragicomico paese - erano ancora numerosi i pretoni che tuonavano dai loro pulpiti contro i matrimoni civili, figuratevi dunque se era ammissibile che due morosi passassero assieme le vacanze da soli... Anatema!
Al massimo, nell’estate 1967, poteva accadere che lei andasse in ferie con i genitori a Ladispoli (o a Cesenatico, o a Bordighera) e che lui s’accodasse. Poi, magari, lui e lei s’infrattavano da qualche parte e trombavano lo stesso ma - siccome i genitori di lei, a distanza di qualche metro, facevano i cruciverba sotto l’ombrellone - la moralità era salva. Inoltre la mia ragazza era ancora (anagraficamente) minorenne, per cui una vacanza io e lei da soli era doppiamente inammissibile... come non bastasse, a me il mare non piaceva e ancor meno piaceva la prospettiva d’avere i genitori di lei tra i piedi. Morale: vacanze separate.
FIAT 500 1965Nell’estate 1967 avevo una Fiat 500 turchina con sedili in similpelle rossa;  optionals aggiunti (all’epoca ci s’arrangiava da sé: le case praticamente non fornivano optionals a richiesta con il vantaggio che la politica dei prezzi era assai più trasparente):

· sulla plancia, staffa porta transistor, in plastica, con immaginetta di san Cristoforo,
· sul piantone, bloccasterzo “Bloster” a forcella,
· sotto la plancia, ripiano a tutta larghezza tipo Mini, in faesite con bordo in gomma salva ginocchia, che sostituiva il cassettino (senza coperchio) di serie,
· sul cofano posteriore serratura a chiave in sostituzione della maniglietta di serie (a “mamma Fiat” poco importava che il primo scalzacani ubriaco potesse aprirti il cofano e orinare - così, per dispetto - sul tuo spinterogeno; a “mamma Fiat” importava risparmiare qualche centinaio di lire).
La 500 m’era stata regalata dai miei poveri vecchi nel gennaio 1966 come premio per avere superato quasi brillantemente una serie d’esami terrificanti, ma non l’avevo mai provata sulle lunghe distanze e, quando giunse l’estate, non ero ancora psicologicamente pronto alla prova. Invece, a inizio estate 1967, guardai la mia venerata “scatolina” e dissi “Yes I can!”. Meta del viaggio: Istanbul... E perché proprio Istanbul? Qui è opportuna una spiegazione. Qualche tempo prima era apparso sugli schermi “ A 007 dalla Russia con amore”, ambientato in gran parte nell’ex capitale ottomana; il film aveva avuto un successo strepitoso e, improvvisamente, Istanbul era diventata una meta turistica molto “trendy” soprattutto tra i giovani con un po’ di spirito d’avventura: non che andarci fosse poi una grande avventura, però - soprattutto via terra - non era certo come andare a Parigi, a Vienna o a Zurigo, e non tanto per colpa dei turchi o per via della distanza ma perché era giocoforza varcare la minacciosa “cortina di ferro” con tutto quello che le stava dietro. Evidentemente, per un’avventura simile, occorreva un compagno di viaggio, ma non più d’uno perché la capienza della 500 non lo consentiva; a questo punto va anche chiarito che - per i motivi sopra esposti - era normale che due giovanotti potessero concedersi un viaggio assieme senza rischiare d’essere scambiati per una coppia... ehm, di fatto... Altri tempi!
Nell’estate 1967 io e un certo Beppo - rappresentante di lingerie a inizio carriera - eravamo soci d’un circolo ricreativo che organizzava soggiorni, gite, viaggi, feste, concorsi, insomma “eventi” (con si direbbe oggi). Io e il Beppo non eravamo amici in senso stretto né mai lo fummo (tant’è vero che, in seguito, ci perdemmo di vista) però andavamo parecchio d’accordo. Una sera d’inizio estate - dopo le abituali visite alla clientela - il Beppo arrivò nella sede del circolo e si mise a chiacchierare con me del più e del meno. Anche il Beppo aveva una ragazza, ma la sua era una storia più impegnativa (tant’è vero che poi sposò la ragazza), però quella sera dichiarò che nemmeno lui gradiva l’idea di passare le poche ferie con i genitori di lei tra i piedi. Pertanto, quando gli proposi: “Allora perché non...” e gli parlai del mio progetto, si mostrò interessato. Oltretutto il Beppo moriva dalla voglia di provare la mia 500; anche lui ne aveva una 
FIAT 500 1960come “strumento di lavoro” ma era un vecchio modello - di quelli color cacarella-dopo-avere-mangiato-dieci-Danone-ai-cereali e con le portiere a vento - per cui non era molto affidabile. E il dado fu tratto: a Istanbul con 500 e tenda. Dimenticavo: il circolo era frequentato anche da campeggiatori, per cui noleggiava tende; inutile pertanto chiarire dove recuperassimo la tenda (visto che la mia “Pinetina”, usata in Svezia due anni prima, era troppo piccola e, oltretutto, era pure marcita); inutile altresì specificare che non saldammo il noleggio e che manco ci ricordammo di restituirla... Che volete? Eravamo un tantino distratti e il responsabile del servizio tende non era troppo pignolo. Presa la decisione, cominciò la raccolta d’informazioni e di documenti. In questo ci fu utile il Nello, un altro socio del circolo (purtroppo passato a miglior vita), fotografo specializzato in soggetti archeologici (Cosa volete che vi dica? C’è chi preferisce fotografare donne poco vestite e chi i siti archeologici; comunque non è che il povero Nello, se capitava, non esercitasse la sua professionalità anche riguardo a soggetti di natura, come dire, più “carnale”).
LAND ROVER IIA 1962 Il Nello conosceva la Turchia come le sue tasche per averla girata in lungo  e in largo a bordo della sua “Land Rover” - nonna dell’attuale “Defender” - in quanto il paese è ricchissimo di siti archeologici. La sua opinione non fu molto incoraggiante. In sostanza il Nello ci disse che, varcato il confine tra Italia e Jugoslavia a Fernetti, se la 500 si guastava erano cavoli amari. Infatti - può sembrare strano - “mamma Fiat” non esportò il suo mitico modello ovunque, ma solo in certi paesi, soprattutto in quelli nei quali FIAT 500 STEYR PUCHla “seconda macchina” cominciava già a prendere piede; oltretutto nei paesi di lingua tedesca si preferiva la 500 “Steyr-Puch”, la cui  motorizzazione differiva non poco da quella nostrana. Inutile pertanto aggiungere che - nei paesi dell’Est - mentre le 600 “Zastava” erano diffusissime, le 500 erano assai rare e i relativi ricambi  pressoché iZASTAVA 600ntrovabili, visto  che le due utilitarie avevano ben poco in comune. Come non bastasse, avendo chiesto informazioni agli uffici turistici di Romania e Bulgaria (non avevo ancora deciso l’itinerario), mi fu risposto che l’assistenza Fiat era presente (forse) solo a Bucarest e a Sofia, il resto... ciccia! Per fortuna, proprio all’epoca, nacque la rete ”Europ Assistance” per cui, prima di partire, mi fiondai a stipulare una polizza la quale mi diede una certa tranquillità. Per maggior sicurezza acquistai anche alcuni ricambi: calotta spinterogeno, puntine, candele, cinghia trapezoidale e perfino un giunto dei semiassi posteriori, infatti circolavano delle dicerie circa la loro “fragilità” (venni poi a sapere che era un difetto tipico dei vecchi modelli); in più nastro isolante, fil di ferro eccetera, cui aggiunsi addirittura una bottiglia di acqua distillata per la batteria! Dal canto suo il Beppo recuperò da uno sfasciacarrozze un vecchio fanale e, con del cavo e due morsetti, ricavò una lampada volante.
Fu così che, un sabato mattina dell’agosto 1967, partimmo. Ovviamente il Beppo volle mettersi al volante e io acconsentii non solo perché era pilota più consumato di me ma anche perché, già allora, guidare non m’entusiasmava più che tanto: in viaggio ho sempre preferito godermi il panorama piuttosto che il “piacere” della guida. All’epoca l’A4 VE-TS era ancora di là da venire, per cui, a Mestre, imboccammo la statale triestina e puntammo verso il “favoloso Oriente” con l’animo pronto all’avventura!E la prima avventura (ma nella sua forma negativa) non si fece attendere. Nemmeno a farlo apposta, dopo un po’ di chilometri il Beppo - accompagnando la constatazione con tipiche espressioni padane vietate ai minori - constatò che qualcosa non andava: a suo dire il cavo del gas aveva un funzionamento “ruvido”, sempre a suo dire era meglio fermarsi a Trieste e farlo controllare. In piena crisi di panico, assecondai il parere dell’“esperto”: anche ammettendo che la neonata “Europ Assistance” mantenesse gli impegni contrattuali (a proposito, ho sentito voci recenti assai poco rassicuranti in merito) una rottura del cavo nel cuore dei Balcani si sarebbe certamente tradotta in un’epocale rottura di zebedei; forse le nostre preoccupazioni erano esagerate ma va tenuto conto che allora non c’erano i cellulari e, anche ci fossero stati, a chi ci si poteva rivolgere, e in quale dialetto ostrogoto avrebbero risposto? Inoltre chissà se c’era uno straccio d’assistenza stradale al di là della cortina di ferro, e se c’era quali servizi potevano offrire e a che prezzo? Infine, per completare il quadro, va precisato che io disponevo di circa 50.000 lire e che il budget del Beppo non credo fosse molto più pingue. Mal che vada - ci dicemmo - facciamo sistemare il cavo a Trieste e, se spendiamo una cifra, vorrà dire che torneremo a casa con le pive nel sacco ma certamente non resteremo soli e immobilizzati per ore, se non per giorni, in qualche sperduta landa comunista od ottomana.
A Trieste trovammo un’officina in pieno centro; infatti all’epoca le officine restavano aperte tutta la giornata di sabato e se ne trovavano pure in pieno centro, non come adesso che nei week end non trovi un cane che ti cambi la batteria o un pneumatico e le officine sono ubicate nelle più remote periferie, quindi - per tornare a casa - uno deve macinare chilometri a piedi perché il tram non ci arriva o spendere un patrimonio per il taxi, il tutto moltiplicato due in quanto la macchina bisogna poi andare a riprenderla, visto che dei guasti riparabili in tempi brevi s’è persa la memoria. Il meccanico “de Trieste” comprese le nostre ragioni: il “triage” stabilì “zona rossa” e la 500 entrò in sala operatoria. Il lavoro era abbastanza complesso perché il cavo del gas era molto lungo: doveva infatti raggiungere il motore posteriore percorrendo il tunnel longitudinale e pertanto bisognava smontare quest’ultimo, il quale, ulteriore rogna, alloggiava altri cavi (avviamento e starter) nonché i tiranti del cambio... un bel casino! Per farla breve, in circa quattro ore il lavoro fu completato, il tunnel fu smontato e rimontato, tutte le tiranterie sistemate, il comando del gas sembrava quasi un moderno “wireless” e con un paio di mila lire a cranio ce la cavammo... Altri tempi e altri meccanici.
Ripartimmo notevolmente sollevati, quantunque la riparazione avesse mandato a donne di facili costumi la tabella di marcia e la tappa a Belgrado - programmata per la tarda serata - fosse ormai saltata; ma forse fu un bene. Dal confine di Fernetti-Sesana fino a Zagabria la strada non era il massimo ma era comunque percorribile senza gravi patemi d’animo, anche perché il traffico non era molto intenso. Fu dopo Zagabria che le cose peggiorarono radicalmente: infatti a Zagabria cominciava la famigerata “Autoput Zagreb Beograd” una delle più stramaledette “opere del regime” tra quelle volute dal maresciallo Tito; inutile dire che al temine “Autoput” aggiungemmo una desinenza facilmente immaginabile. Si trattava d’uno stradone lungo oltre 400 km che univa le due città attraverso un paesaggio d’una monotonia snervante: uno sterminato bassopiano caratterizzato da campi e pascoli risecchiti, da qualche bosco, da lontanissime colline, da alcune cittaduzze che si profilavano in distanza e non invogliavano minimamente a una sosta; del resto - come sempre all’epoca - non avevo uno straccio di guida e poi a noi interessava la metropoli del Bosforo, non qualche modesta cittaduzza della Slavonia: se tanto mi dà tanto, ci dicemmo, in una regione tanto desolata chissà che cessi sono i centri abitati. Tuttavia non realizzammo subito che orrenda rottura di maroni c’attendeva: infatti era sera, il sole aveva smesso di picchiare duro, il traffico e la strada erano quasi tollerabili, in più va detto che ci trovavamo ancora in terre ex austroungariche (non so se mi spiego, ma un certo retaggio storico non è acqua fresca). Verso le venti vedemmo, sulla destra, una stazione di servizio con “Motel, Restauracija, Cafe, Grill” eccetera, nonché, sulla sinistra, un cancello sormontato dall’insegna “Autocamp” nel quale c’infilammo.
Breve divagazione: il termine croato “autoput” significherebbe “autostrada”, ma già dalla manovra d’ingresso nel camping il lettore avrà capito che non si trattava d’una vera e propria autostrada, ma d’un itinerario “veloce” i cui standard erano ben lungi da quelli già allora adottati in occidente: in sostanza era una normale strada che tagliava fuori i centri abitati, presentava andamento prevalentemente rettilineo (cosa non difficile data la piattezza del territorio attraversato) ed era teoricamente interdetta a velocipedi e altri mezzi a propulsione animale; per il resto la carreggiata era unica, a doppio senso di marcia, e gli incroci a raso: insomma una vera fetecchia. Del resto, nel 1929, anche il Duce anticipò i tempi facendo realizzare una fetecchia simile tra Milano e i Laghi, la definì “Autostrada”, istituì il pedaggio e alla fine vantò che l’Italia aveva la prima autostrada d’Europa... Cose che capitano quando un paese largamente infestato da pasticcioni superficiali, da miserabili presuntuosi e da furbetti incalliti preferisce delegare a un despota decisioni che interessano tutti i cittadini: vengono fuori le solite “opere del regime”, in altri termini le solite “nozze con i fichi secchi”... Almeno Tito non pretendeva alcun pedaggio.
All’interno dell’ Autocamp non si vedeva un piffero: ormai una notte senza luna era calata sul bassopiano serbo/croato e le uniche fonti luminose della struttura consistevano, se ben ricordo, in un paio di lampioni da 15 W, decisamente insufficienti vista l’estensione dell’area. Allora il Beppo - con aria trionfante - tirò fuori il suo fanalone per illuminarci mentre piantavamo la tenda e collegò i morsetti alla batteria; peccato che, dopo pochi secondi, il fanale scottasse come un ferro da stiro e non ci fosse un ramo, un paletto, un fottuto gancio a cui appenderlo. Morale: l’illuminazione fu fornita dai fari della 500, l’oggetto di cui il Beppo andava tanto fiero finì sotto un sedile e colà rimase per il resto del viaggio. Piantata la tenda, andammo al cancello per vedere se trovavamo un qualche addetto, ma l’unica cosa che notammo fu un avviso che invitava la cortese clientela a registrarsi presso il motel, ossia dall’altra parte dell’ Autoput, operazione non priva di rischi visto che il traffico, mano a mano che la notte avanzava, si faceva da bollino rosso, con in più i camion (che all’epoca potevano circolare 24/24 h per 7/7 giorni). Un istante di tregua nel traffico e, con scatto felino, ci precipitammo a registrarci e a cercare qualcosa da mangiare, anche perché avevamo un certo appetito: l’unico piatto servito nel sordido “restauracija” (in cui stazionavano alcuni ceffi dall’aria poco raccomandabile) era una specie di stufato costituito da un’indefinibile carne (caprone?) piena di grasso e nervi, tagliata a grossi bocconi che nuotavano in un’ancor più indefinibile broda color vomito di gatto. Nonostante l’appetito, dopo un paio di forchettate lasciammo da parte quella porcata e ingollammo sette od otto fette di pane; poi, tanto per fare massa e tacitare lo stomaco, ordinammo della birra... Di male in peggio! Nonostante all’ingresso della sala troneggiasse un vecchio frigo stalinista grande come un armadio a muro, il cui compressore mandava un continuo e assordante rumore di ferraglia, non ci fu verso di bere una birrazza fresca, sembrava pipì: più ne bevevi e più sete ti veniva... e in più la notte si preannunciava calda e afosa. Tra l’altro fummo informati che i servizi annessi al campeggio erano quelli stessi del motel, per cui, fossimo stati colti da attacchi di cacarella o di pisciarella, saremmo stati costretti ad attraversare - in piena notte e magari in mutande - l’Autoput.
In effetti la notte fu insopportabilmente calda e afosa; come non bastasse l’area camping era compresa tra l’Autoput - sulla quale il traffico aveva raggiunto un’intensità ossessiva - e uno scalo merci in cui tutti i treni balcanici - più relativi macchinisti - sembravano essersi dati appuntamento per fare manovra: ciuff-ciuff (le “caffettiere” a vapore erano ancora in servizio), fischi, botti di respingenti, stridio di ruote sulle rotaie, urla di avvinazzati slavi, magiari, rumeni s’aggiunsero al rombo del traffico. Solo verso le quattro Autoput e scalo merci decisero di darci una tregua, se non che una mucca lì vicino cominciò a muggire disperatamente e senza interruzione: forse la povera bestia aspettava solo d’essere munta, fatto sta che non la piantò fino a quando non decidemmo, semidistrutti, d’alzarci. Prima cosa da fare appena alzati: scaricare i rifiuti organici accumulatisi nottetempo. Nuovo temerario attraversamento di Autoput in bermuda e infradito con precipitosa irruzione nelle toilette del motel; fortunatamente riuscimmo a bloccarci prima di fare un poco gradevole pediluvio: il pavimento del locale toilette (una spanna sotto il piano campagna) era inondato da mezza spanna di liquame giallastro e maleodorante. Per fortuna lì appresso c’era un enorme montarozzo di spazzature, dietro cui potemmo liberarci a nostro piacimento, cercando di non calpestare i “ricordini” deposti da altri viaggiatori. L’imperativo divenne uno: lasciare quello schifo di sito al più presto! Macché caffè, macché cornetti alla crema! Via, via, di galoppo... Ma un’ultima sgradevole sorpresa era in agguato: mentre stavamo sbaraccando, un tanfo orrendo assalì le nostre narici: complici l’oscurità e la stanchezza non c’eravamo accorti d’avere piantato la tenda su un’enorme cacca, evidentemente depositata da qualcuno che non se l’era sentita d’attraversare l’Autoput e depositarla - se non nei cessi del motel - almeno dietro le immondizie del motel. Un’occhiata più attenta ci convinse che tale comportamento era abbastanza diffuso tra gli ospiti dell’ Autocamp. Trattenendo a stento il vomito, ripulimmo il fondo della tenda (per fortuna all’interno dell’Autocamp c’era un rubinetto... uno e basta), l’asciugammo alla meglio con dei giornali e ripartimmo imprecando come i cittadini dello stato verso cui eravamo diretti. La nostra opinione che la giornata fosse iniziata sotto il segno della cacca trovò conferma quando riprendemmo la via di Belgrado...
A questo punto mi permetto una digressione a carattere tecnico che, chi vuole, può anche saltare a piè pari. Detta in soldoni, quando - per l’aumento del traffico motorizzato, delle velocità e dei carichi - apparve chiaro che le strade a fondo naturale non bastavano più, si presentò il problema del materiale con cui rivestire le carreggiate; esistevano - è vero - lastricati, sampietrini, pavé eccetera ma erano rivestimenti troppo costosi e inadatti a mezzi sempre più performanti (immaginate di viaggiare a tutta birra sul lastricato che pavimenta molti vialoni milanesi e torinesi) pertanto tali pavimentazioni sono usate prevalentemente in ambiti urbani. La scelta tecnica cadde quindi su due opzioni: conglomerato bituminoso (comunemente detto “asfalto”) o conglomerato cementizio (comunemente detto “cemento”). Prima e dopo la seconda guerra mondiale, nonostante i maggiori costi, il cemento ebbe notevole diffusione, fors’ anche perché una strada in cemento poteva costituire una pista per atterraggi di fortuna (questa ipotesi non è mia ma la ritengo attendibile perché, tra nazifascisti, comunisti, guerra calda, guerra fredda eccetera, l’Europa ha passato decenni piuttosto turbolenti). Una strada in cemento può durare anche decenni, se ben costruita come le “Autobahnen” tedesche le quali, per fortuna, durarono ben di più del Terzo Reich durante il quale vennero realizzate (il quale Terzo Reich durò, comunque, sempre troppo), però ha due gravi difetti: i giunti di dilatazione e l’impossibilità d’effettuare “rattoppi” soddisfacenti. I giunti provocano un reciproco “martellamento” tra pavimentazione e automezzi ma, mentre in questi le sospensioni provvedono ad attutire il fastidioso effetto, sul calcestruzzo gli effetti si cumulano e provocano sgretolamenti e lesioni nel medesimo, a lungo termine se realizzato come si deve, a breve termine in caso contrario. In più c’è un grosso problema: quando si fa una gettata è difficile valutare a occhio se si tratta d’un calcestruzzo confezionato con i classici 300 kg/mc di cemento ad alta resistenza o non piuttosto d’un “magrone” (oggigiorno lo chiamano calcestruzzo “depotenziato”) inadatto a sollecitazioni impegnative; per verificarne la resistenza occorrono costose prove di laboratorio, effettuabili in separata sede e, oltretutto, facilmente taroccabili (parlo con qualche cognizione di causa). Come non bastasse, analogo discorso vale anche per le armature. Aggiungiamo che talvolta, durante la posa in opera, certi direttori dei lavori “non vedono, non sentono e non parlano” ma in compenso intascano, e così si spiegano fenomeni tragici e strani come quelli accaduti (tanto per dire) all’Aquila... ma questa è un’altra storia. Comunque una cosa è ineluttabile: qualsiasi fondo stradale prima o poi si deteriora, solo che mentre l’asfalto può tirare avanti anni a forza di “toppe” (purché fatte come si deve), nessuna toppa attecchisce a lungo su una carreggiata in cemento: in altri termini, quando una strada in cemento diventa “scarrupata” non c’è riparazione che tenga, bisogna rifare tutto ex-novo (ovviamente lo stesso avviene anche per le strade in asfalto se non si procede per tempo alle necessarie riparazioni, come dimostra l’itinerario E-45 Orte-Ravenna, che ha reso felici gommisti e autoriparatori operanti lungo il percorso). In conclusione mi risulta che strade con rivestimento in calcestruzzo non se ne fanno più.
Questa lunga pappardella per dire che - sotto il sole implacabile del bassopiano serbo - la carreggiata in cemento dell’ Autoput ci apparve in condizioni a dir poco spaventose. Chi scrive ignora se il calcestruzzo comunista fosse una chiavica perché lo stato su cui imperava il maresciallo Tito era povero o perché anche tra i “compagni” s’era trovato il modo di rubare sugli appalti pubblici (personalmente propendo per questa seconda ipotesi: anche nei paesi poveri - o meglio soprattutto in questi - i soldi per le bustarelle si trovano sempre), fatto sta che la mia cinquecentina seminuova se la vide davvero brutta. Crac... Thump... Sock... agghiaccianti botti degni d’un fumetto giapponese ci perseguitarono per trecento e passa chilometri e fecero da colonna sonora a un’interminabile sequenza di sobbalzi, scossoni e sussulti che misero a dura prova pneumatici e sospensioni (oltre la colonna vertebrale d’entrambi) e, almeno un migliaio di volte, rischiarono di sbatterci fuori strada a incrementare il numero di carcasse lasciate sul posto come muto ammonimento per i temerari... Il fatto è che, a mio avviso, tutti quelli che affrontavano l’Autoput una certa dose di temerarietà dovevano averla, noi compresi, altrimenti il buon senso ci avrebbe consigliato una rapida conversione a U e un rilassato ritorno in patria.
Invece avanti... Attento! Buca!... Merda, che botto! Crac... Thump... Sock... Occhio! Quello ci viene addosso, cazzo!... Sole sempre più implacabile... Crac... Thump... Sock... Porca vacca! Stavolta credevo proprio che mi scoppiassero tutt’e quattro!... Ancora avanti... Interminabili file di cartelloni tutti uguali, tutti gialli, tutti pubblicizzanti il “Toblerone” (Qualcuno mi sa spiegare come mai il Toblerone fosse l’unico prodotto reclamizzato lungo l’Autoput? Forse quello importato in Serbia aveva proprietà afrodisiache? Fatto sta che a noi, con quel caldo, la sola idea di mangiarne un triangolino dava il voltastomaco).
TRABANT P601 1968 Crac... Thump... Sock... Traffico martellante: scassatissimi autotreni Tatra trasportavano di tutto e di più, scassatissime bisarche dirette a nord  trasportavano Zastava nuove, scassatissime bisarche dirette a sud
trasportavano Trabant IKARUS BUSnuove, scassatissimi pullman “Ikarus” trasportavano gente da Belgrado verso siti che si sarebbero rivelati assai poco igienici (Srebrenica, Sarajevo, Vukovar, ecc), scassatissimi pullman “Ikarus” trasportavano gente verso Belgrado da siti che si sarebbero rivelati   assai poco igienici (Srebrenica, Sarajevo, Vukovar, ecc), scassatissimi camioncini UAZ trasportavano operai diretti chissadove, scassatissime 600 Zastava con coprivolante in peluche e tamarro balcanico alla guida UAZ 450 1958-1965concludevano tra le buche dell’Autoput le loro ingloriose esistenze... Crac... Thump... Sock... A proposito di vetture targate YU, notai un fatto  curioso: nonostante il regime la Jugoslavia d’allora appariva un mercato molto aperto alle vetture occidentali: erano presenti marche praticamente irreperibili in Italia, marche MINI HONDA N360tipo Sunbeam, Borgward, Goliath, Austin/Morris, DKW, perfino qualche Honda Mini; oltretutto si trattava spesso di modelli antidiluviani. Viene da pensare che i meccanici locali fossero piuttosto eclettici; se un italiano si fosse presentato in un’officina nostrana con uno di quei rari catorci sarebbe stato cacciato a pedate dal titolare. Crac... Thump... Sock... Avanti, avanti tra campi polverosi e boschi risecchiti; ogni tanto qualche desolata stazione di servizio nei cui pressi bivaccavano camionisti distrutti dal caldo e dalla fatica, insieme a strani personaggi che occhieggiavano nelle vetture parcheggiate e a “belle (si fa per dire) di giorno” in attesa di clientela...
RENAULT 4 Crac... Thump... Sock... Turisti non ne mancavano: soprattutto giovani francesi stipati prevalentemente in 2 CV o R 4 stracariche (quanto invidiai le loro sospensioni, certamente più adatte a quella pista infernale!), con i fari rinforzati da strisce di nastro adesivo nero - un accorgimento allora molto usato dai HIPPIES BUSrallisti e molto in voga tra i giramondo fighetti - e con la carrozzeria piena di graffiti che evocavano mete esotiche: Adana, Teheran, Damasco, Bagdad, Karachi, Lahore... Chissà quanti di loro ce la fecero? Un bel momento superammo addirittura uno scarrupatissimo “Double Decker Bus” (per intenderci un autobus londinese a due piani, probabilmente recuperato da una comunità hippy presso un demolitore), con i vetri sostituiti da pannelli di cartongesso e adibito a “centro sociale” viaggiante. Chissà dove diavolo andavano? Forse non lo sapevano manco loro, o forse verso una delle tante località indiane dove certa “roba” circolava liberamente e a modico prezzo. Comunque - com’ebbi modo di constatare in seguito - tale moda prese piede e molti vecchi autobus urbani subirono il cambio di ANTICO BUS PARIGINOdestinazione d’uso: autobus non solo londinesi ma anche parigini - di  quelli che si possono vedere nei vecchi film francesi in b/n - con la terrazzina posteriore e il tirante del campanello simile a quello d’uno sciacquone. Poi anche questa moda scomparve, cancellata dalla sempre più invasiva tendenza all’individualismo, alla crescente incapacità di socializzare e alla naturale estinzione di veicoli tanto suggestivi. (continua)”

[Seconda Parte]

Recensione inviata da Luciano De Dionigi di Padova

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11 Commenti

motodimerda ha detto...

ma trombasti...........

Stiui ha detto...

Oggigiorno non bastano spinterogeno e puntine: con la qualità usa e getta attuali servono anche un pò di condensatori e una bobina!
Con la mia Giacomina(una L del '72) avrei davvero paura a fare un viaggio del genere, complimenti per lo spirito d'avventura!
Attendo il seguito!

M.F. ha detto...

Oddio, in Turchia nel '67 sarebbe quasi un miracolo. Ma mai dire mai. Attendiamo fiduciosi.
Comunque i racconti di viaggio sono sempre un piacere da leggere. Specie se di un'epoca in cui la componente "improvvisazione" era ancora predominante. Grazie mezzotoscano.

Luciano ha detto...

Grazie a tutti, cari signori.
Intanto v'invito ad attendere la conclusione (provvisoria?) del resoconto che ho inviato ad AdM.

@ Mezzoghostano
dico MOOOLTO amichevolmente che la mia ormai trascorsa e oramai MOOOLTO occasionale (anche se non me ne frega più 'na beata mazza) attività sessuale non sono affari suoi... mi consenta!

@ Stiui
Mai mettere limiti alla Provvidenza: nel 67 vidi autentici "cadaveri" su quattro (o magari tre) ruote che si misuravano bravamente con la terribile Autoput[tana]. Perché non oggi che la situazione è di certo migliorata? Se non ci provi non saprai mai se ce la puoi fare.

@ M.F.
Ma quale miracolo? Nel 67, in certi tratti. la via verso la "Perla del Bosforo" sembrava quasi il GRA nelle ore di punta, c'era anche gente in bicicletta...
Quanto a improvvisazione noi italiani fummo maestri in quest'arte. Perché non riprovarci? Adesso tocca a voi giovani; io la mia parte l'ho fatta.

@ Tutti
(visto che il caro Edmondo m'ha ripassato il testimone di "vècio" del sito) ricordo gli immortali versi di Lorenzo il Magnifico:
"Quant'è bella giovinezza
Che si fugge tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia,
Del doman non v'è certezza."

Stiui ha detto...

Grande Mezzotoscano!
Confesso che preferisco viaggiare con moto da enduro, l'autoput(tana) potrebbe anche essere divertente!

mezzotoscano ha detto...

@ Stiui
Ignoro se l'Autoput sia stata resa più confortevole rispetto al 1976 (anno in cui la percorsi in Mini per la seconda e ultima volta) ma penso di si. Tuttavia non conosco persone da cui attingere notizie in merito; comunque, se le cose non fossero cambiate, la moto da enduro è senza dubbio il mezzo più idoneo ad affrontare il tracciato anche se - per le sue caratteristiche - non può darti le stesse scariche d'adrenalina d'una 500 o d'una Mini che sembravano andare in pezzi ogni quattro buche.
Però, ripensandoci, chiedo a eventuali interessati: ma chi ve lo fa fare? Tra voli low cost, prenotazioni via Internet eccetera, viaggiate più tranquilli, più spediti e magari spendete anche meno.
Sbaglierò ma credo che certi raid massacranti non siano più proponibili.
I tempi cambiano...

ANhIMA ha detto...

I tempi cambiano mezzo, come le persone indubbiamente.. eppure rileggendo i tuoi scritti mi ritrovo sempre più vicino al tuo modo d'essere, cosa che, nonostante qualche anno e qualche chilometro che ci divide, mi fa pensare che se ci fossimo conosciuti a pari età, saresti stato per me un ottimo amico e compagno di viaggio. Personalemnte rimango tra quelli che, avendone la possibilità, partirebbero col proprio mezzo. Vuoi mettere la libertà di spostamento e di escursione? Ed altresì il gusto di sfoggiare la propria vettura e targa in un paese straniero? :) Anche se al giorno d'oggi molte cose si sono standardizzate :(

motodimerda ha detto...

ma basta andare in certe parti di berlino e sei a istambul
paro paro
pure per la massiva dose di turchesi
(traduzione di turchi dal tedesco)

M.F. ha detto...

Concordo con AdM. Personalmente (come tutti o quasi credo) ho fatto sia viaggi in aereo che viaggi in auto. Mi sono divertito in entrambi i casi, ma nel viaggio in aereo cominci a divertirti quando sei arrivato a destinazione, mentre nel viaggio in auto cominci a divertirti da sotto casa. W i viaggi in macchina!

luciano ha detto...

Beh, affrontare l'Autoput non fu precisamente una libidine...

Flapane ha detto...

Stupendo, proprio come il racconto Scandinavo.
Avendo fatto mio padre un viaggio simile, arirvando in 500 fino al confine sovietico in Romania, gli devo chiedere di questa famigerata Autoput, magari ha qualche foto...
Intanto complimenti.

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