“In 500 a zonzo per Costantinopoli”
“La madre del mio amico Tonio era una vedova benestante, energica e autorevole come un generale dell’Arma e sana come un pesce. Tra femmine e maschi aveva messo al mondo cinque figli i quali le avevano dato grosse soddisfazioni: infatti, poco dopo aver brillantemente concluso gli studi, i quattro maggiori avevano messo su famiglia e avevano altrettanto brillantemente trovato il loro “posto al sole”. Solo il Tonio, l’ultimogenito, era rimasto con lei: infatti - essendo ancora studente - non era ancora autosufficiente dal punto di vista economico. Per completezza d’informazione specifico che anche il bravo Tonio non fece eccezione alla regola: si laureò brillantemente, trovò ottime occasioni di lavoro e, poco dopo, convolò a nozze. Dopo quasi cinquant’anni da quando abbiamo fatto conoscenza ci teniamo ancora in contatto anche se lui - per motivi professionali - s’è stabilito in Sicilia e lamenta qualche acciacco.
Ma torniamo alla madre: la signora non aveva la patente ma aveva i mezzi per comprare una macchina, mentre il Tonio aveva la patente ma non i mezzi di cui sopra. Ebbene, visto che la vedova - dopo una buona fetta di vita dedicata alla famiglia - era stata presa dal giustificabile desiderio di vedere un po’ di mondo prima che il peso degli anni glielo impedisse, tra madre e figlio avevano stipulato un patto; in sostanza la signora aveva decretato: “Io ti compro una macchina ma in cambio tu mi dovrai scarrozzare quando e dove voglio io.” Dopo anni di “Lambrettone”, il Tonio - pur di mettere le mani su un volante - avrebbe fatto carte false: fu così che mamma gli comprò un’ “Anglia” di quelle originali, con il lunotto a rovescio. Il Tonio fu tre volte fortunato: infatti poco tempo dopo sfasciò irreparabilmente quell’indefinibile oggetto, non si fece un graffio e mamma non se la prese più che tanto: infatti l’ Anglia fu prontamente sostituita da una fiammante Fiat 1500 e il Tonio - da quel bravo figliolo che era - poté scarrozzare per mezza Europa l’anziana genitrice su un mezzo più dignitoso. Che c’entra tutto questo con Istanbul? C’entra perché, mentre stavo ronfando nella mia tenda piantata al “Mocamp BP” ubicato all’ingresso ovest della metropoli, sentii bisbigliare dall’esterno: “Pssst... Ehi, Ciano!”
“Eh?... Come?... Chi cazzo è? Che cazzo d’ora è?” chiesi inebetito dal brusco risveglio.
“Mezzanotte e mezzo e parla piano che mamma potrebbe sentirti!”
“E chi se ne... Insomma, posso sapere chi rompe le palle a quest’ora di merda?”
“Parla piano ho detto, imbecille! Sono il Tonio, non riconosci la voce?”
Se c’era una cosa che assolutamente non m’aspettavo era il ritrovare - in piena notte e alle porte d’Istanbul - un tizio assieme a cui avevo preparato un esame infernale solo poche settimane prima. Nonostante il brusco risveglio la cosa mi rallegrò. Sapete com’è: in terra straniera (e all’epoca la Turchia era veramente considerata una terra straniera, ma tanto straniera) è sempre rassicurante trovare qualche connazionale con cui fare comunella, tanto meglio poi se il connazionale è un buon amico. Uscii dalla tenda e, vedendo la 1500 poco distante, dissi al Toni: “Tu e mamma come al solito, a quanto pare. Ma come mai non avete cercato un hotel, voi che avete i mezzi?”
“Capirai, girare in città, a ‘sta ora di notte...”
“Eh già, manco noi ce la siamo sentita: appena vista l’insegna del camping siamo entrati, abbiamo piantato la tenda e, data l’ora, abbiamo preferito andare a nanna... Però voi la tenda mica l’avete. E allora?”
“Sai com’è fatta mamma: è una donna di ferro. Ha detto che per qualche ora potevamo anche riposare in auto e usare i servizi del campeggio. Così ci rilassiamo un po’ e domattina andiamo in cerca dell’albergo... Se non altro qui siamo al sicuro.”
Il “Mocamp BP” era effettivamente un posto sicuro: infatti dentro e fuori il campeggio - a ogni ora del giorno e dalla notte - ronzavano giannizzeri formato “Mastro Lindo” con i tipici occhiali affumicati turchi dalla grossa montatura, anfibi ai piedi, minacciosi sfollagente in pugno e l’aria di gente con cui è meglio non piantare casini; non per nulla, la mattina dopo, arrivò il famoso Double Decker Bus da noi notato sull’Autoput e i giannizzeri fecero capire agli strampalati turisti che non era proprio il caso d’installarsi al Mocamp. Sempre a proposito del campeggio, devo ammettere che la struttura rappresentò un approccio alquanto positivo con la città: non era solo ben sorvegliato ma anche nuovo, pulito, ordinato e popolato da una clientela quanto mai cosmopolita (come del resto c’era da aspettarsi in un ambito tanto straordinario). Tanto per dirne una, l’indomani mattina - poco distante dalla nostra tenda - vidi arrivare una famigliola su una veneranda Land Rover a passo lungo con targa australiana! La vettura trainava un massiccio carrello/tenda ricavato da quello che sembrava un rimorchio agricolo pesante. A quanto capii la famigliola - eccetto ovviamente i tratti di mare tra Australia, Indie Orientali e continente asiatico, superati grazie a chissà quali carrette indonesiane o malesi - era giunta a Istanbul via terra attraverso Thailandia, Birmania, India, Pakistan e Iran; e non era tutto, quegli ardimentosi contavano pure di concedersi un bel giro per l’Europa e infine di tornare nella loro terra più o meno per la stessa via percorsa all’andata ma visitando località diverse. Probabilmente il capofamiglia si godeva il mitico “anno sabbatico”, un diritto abbastanza riconosciuto ai lavoratori d’altri paesi e di cui si favoleggia tra i lavoratori italiani, per i quali invece non sarà mai una realtà... E noi ci sentivamo degli eroi solo per essere arrivati lì dall’Italia su una 500 seminuova!
Ma quali eroi? Ma mi faccia il piacere!... Per esempio, più eroici di noi furono senz’altro due neodiplomati torinesi capitati lì al Mocamp su una 600 bicolore (corpo vettura grigio e tetto blu) vecchia di dieci anni: forse erano un po’ incoscienti visto che avevano osato affrontare il viaggio su quel “cadavere”, ma fegato di certo non gliene mancava, come non ne mancava ai tanti ragazzi che gremivano il Mocamp e che viaggiavano su agonizzanti scassoni a quattro o a due ruote (alcuni addirittura in bici), provenienti dai più disparati angoli d’Europa e magari anche dall’America con il sistema “fly & drive”, ma quelli erano già turisti d’un altro livello. Proprio così, gente: fin dal Mocamp BP, prima ancora di tuffarvi nel vortice della grande metropoli, potevate respirare quell’aria cosmopolita che ne è uno degli aspetti più stimolanti. Tuttavia - sempre al Mocamp - ebbi un poco simpatico preannuncio di un’insidia che Istanbul tendeva all’ignaro turista.
La sera, appena piazzata la tenda, andai al bagno (pulitissimo, funzionale e illuminato a giorno) per una rinfrescata, visto che la notte era afosa e il vento del Bosforo languiva; dopo la rinfrescata - siccome m’era rimasta una gran sete - m’attaccai al rubinetto. Avevo già ingurgitato almeno un litro d’acqua corrente quando - troppo tardi - un urlo risuonò alla mie spalle. Si trattava d’un olandese appena uscito dalla doccia il quale, con aria spiritata, indicava un segnale che m’era sfuggito: cerchio bianco bordato di rosso e simbolo del rubinetto con bicchiere: acqua non potabile! Accidenti! Dissenteria in arrivo e flebo in qualche pronto soccorso locale? Va bene che avevo l’Eurassistance ma la prospettiva non era affatto piacevole! E poi chissà se l’Eurassistance copriva anche le cure contro la cacarella? Mi precipitai dall’addetto alla portineria e gli esposi l’accaduto. “Beh, era certamente meglio se non beveva dal rubinetto, sir; effettivamente qualche volta le acque di fogna s’infiltrano nel nostro acquedotto, però non vedo grossi problemi: i casi di colera sono sempre più rari.”
“Il colera non è un grosso problema? Oh, cazzo!”
“Dia retta a me, sir, e faccia come le dico: vada allo spaccio, compri una confezione grande di yogurt e la mandi giù. Vedrà che funziona... forse. Che Allah sia con lei, sir.”
Ebbene, sarà stata la mia buona stella, sarà stato Allah, sarà stato un mezzo litro d’eccellente yogurt turco “Omur” ingurgitato tutto d’un fiato, fatto sta che l’intestino non diede segnali allarmanti. Come poi constatai, l’acqua potabilizzata veniva distribuita casa per casa in buste di nylon sigillate, ma non è che la soluzione mi convincesse granché; oltretutto doveva costare assai più di quanto costerà a noi italiani l’acqua nostrana privatizzata dai soliti “amici degli amici”. Insomma la notte trascorse tranquilla e l’indomani la paura del colera era dimenticata. Appena alzati ci vedemmo con il Tonio, la cui madre aveva fretta di trovare l’albergo, e con i due torinesi che, invece, avevano da armeggiare sulla loro 600; quindi non facemmo carovana e decidemmo di darci tutti appuntamento, dopo un paio d’ore, davanti a Santa Sofia: non doveva essere difficile rintracciarla, dopotutto l’immensa ex-basilica, ex-moschea e attualmente museo di grande e meritata rinomanza era ed è il più insigne monumento d’Istanbul; inoltre doveva pur esserci uno straccio di parcheggio dove radunare la comitiva.
In effetti, anche senza pianta, rintracciare Santa Sofia non fu difficile perché la segnaletica non mancava, il difficile fu superare il primo impatto con il traffico costantinopolitano che ci coinvolse appena messo il naso fuori dal Mocamp. Mentre io e il Beppo procedevamo verso Rumeli Hisar (porta occidentale d’Istanbul) ci colse il dubbio che il codice della strada turco constasse dei seguenti articoli:
1 - Segnali di divieto e semafori rossi sono da considerare discrezionali e assolutamente non vincolanti.
2 - Tutti hanno la precedenza su tutti.
3 - È severamente vietato rispettare i limiti di velocità se gli altri non li rispettano; si creerebbe intralcio alla circolazione.
4 - La sosta è consentita ovunque, soprattutto dov’è vietata, però se passa un vigile v’appioppa la multa anche se siete parcheggiati regolarmente (per me poco male, tanto la notifica non sarebbe mai arrivata in Italia).
5 - L’uso del clacson è tassativo, soprattutto quando non serve.
6 - Se potete superare a destra, fatelo, soprattutto se ci passate a malapena o se rischiate di travolgere un poveraccio su una Vespa stracarica di cassette di pomodori.
7 - L’uso degli indicatori di direzione è assolutamente vietato, al massimo è consentito segnalare la svolta a sinistra sporgendo il braccio sinistro fuori dal finestrino; d’inverno, a finestrini chiusi, arrangiatevi come vi pare.
8 - Le strisce pedonali servono a individuare meglio i pedoni da stirare.
9 - In caso d’incidente non rompete le palle a vigili urbani o polstrada: hanno di meglio da fare. Tutt’al più potrete chiedere il loro intervento se ci scappa il morto: in tal caso finirete in gattabuia anche se avete tutte le ragioni del mondo, così imparate a farvi i capperi vostri.
10 - I tassinari hanno sempre ragione.
E con questo veniamo ai tassì, i famigerati “dolmuş” turchi. L’invadenza di tali veicoli era uno degli aspetti più tipici d’Istanbul: la cosa si spiega con il fatto che il trasporto pubblico lasciava a desiderare e che il rispetto degli orari non è prescritto dai sacri testi. La Turchia - l’ho già detto - non era un paese ricco, per cui a Istanbul le vetture private (soprattutto Maggiolini, vecchie Mercedes, improponibili Anadol, rugginose Fiat 1100 ma anche numerose fetecchie importate dall’Europa Orientale) erano in minoranza; la maggioranza dei mezzi circolanti erano scassatissimi veicoli commerciali che trasportavano ogni genere di mercanzia in ogni angolo della città e, soprattutto, dolmuş. Ce n’erano a migliaia (a occhio e croce direi almeno cinque per ogni vettura privata ma forse sbaglio per difetto), non stavano mai fermi, manco in piena notte, e ogni tassinaro - anche quando aveva già clientela a bordo - andava a cercarne dell’altra strombazzando a più non posso. L’aspetto positivo è che il costo della corsa - fissato dal tassinaro secondo criteri molto personali - veniva così suddiviso tra più trasportati; quello negativo è che in certi dolmuş una mezza dozzina di clienti s’accapigliavano furiosamente per decidere chi dovesse essere sbarcato per primo, e il tassinaro non poteva esimersi dal partecipare alla “querelle”. Come non bastasse, sembrava dovere d’ogni tassinaro degno della sua alta funzione sociale procedere sempre e dovunque ad andatura pazzesca.
Ma i dolmuş servivano anche a trasportare mercanzie. In proposito ricordo che, una sera, io e il Beppo stavamo passeggiando dalla parti del ponte di Galata quando giunse un dolmuş che viaggiava a tutta manetta; la parte posteriore dell’abitacolo era stipata di cocomeri fino al tetto e dal bagagliaio aperto straripava un’enorme rete con ulteriori cocomeri; davanti, accanto al tassinaro, c’era un altro tizio, presumibilmente il proprietario dei cocomeri. Dopo una cinquantina di metri c’era una brusca curva a gomito che il tassinaro affrontò troppo disinvoltamente andando a incocciare il cordolo del marciapiedi e scalcagnando l’avantreno; le portiere posteriori s’aprirono, la rete si sbregò e un centinaio di bei cocomeri finirono spiaccicati sull’asfalto; i veicoli che sopraggiungevano completarono l’opera creando sulla carreggiata uno spesso strato di marmellata di cocomero. I due sventurati scesero dal dolmuş, guardarono lo scempio con le mani nei capelli, poi si misero a piangere seduti sul cordolo e infine andarono a scolarsi un paio di raki in una taverna lì vicino, mentre numerosi capannelli di gente che commentava la tragedia si formarono rapidamente e qualche scugnizzo si fregò un cocomero rimasto intatto. L’aspetto più tipico è che i dolmuş erano tutti, o quasi, vetusti macchinoni americani; per un appassionato di tali mezzi sarebbe stato uno spettacolo da sballo: Pontiac, Buick, Chevrolet, Dodge, Mercury, Packard, De Soto, Oldsmobile e chi più ne ha più ne metta; penso che ormai un simile campionario - per i noti motivi storici - si possa ammirare solo all’Avana, ma non mi pronuncio perché non sono mai stato all’Avana.
A ‘sto punto devo dire che serbo un buon ricordo del cittadino turco medio: quasi ovunque incontrai persone cordiali, disponibili e ospitali... E questo che c’entra? C’entra perché, in più d’una circostanza, mi venne da pensare che avere un volante tra le mani suscitasse nel cittadino turco medio (solo nel cittadino turco?) una metamorfosi poco rassicurante, in special modo se il volante era quello d’un dolmuş. Ogni volto di tassinaro riportava alla mente quello degli intrepidi e terribili guerrieri che fecero tremare le chiappe all’Europa: facce cupe, crucciate, dure ti fissavano dal finestrino quasi a dirti “Togliti di mezzo, cane infedele!”. In proposito ricordo ancora l’occhiataccia che mi lanciò uno di costoro quando, volendo accostare, azionai inavvertitamente l’indicatore di direzione destro. Tuttavia - superato il primo choc - devo ammettere che cominciai a divertirmi, grazie anche alle ridotte dimensioni della 500 che le consentivano di sgattaiolare agilmente in mezzo a quelle masse di lamiera rugginosa ritoccata a pennello con tinta lavabile. Pertanto, dopo pochi chilometri, fui in grado d’adottare la modalità di guida alla turca: finestrino sinistro abbassato, braccio sinistro - da sollevare in caso di svolta a sinistra - penzolante all’esterno, cambio sempre in seconda (la 500 era molto elastica e poteva partire anche in seconda), mano destra sulla razza destra del volante con pollice sul pulsante del clacson, fuorigiri al cardiopalma in caso di sorpasso, pronta inchiodata dopo il sorpasso perché tanto il culo d’un altro dolmuş ti si parava subito davanti e via così, con la protezione di Allah... Se qualcuno pensa “bel modo di guidare da pirla” non oso dargli torto ma non si dimentichi che allora ero giovane e incosciente e che, in fondo, altro non facevo se non adeguarmi al traffico locale.
La grande spianata tra Santa Sofia e la Moschea del Sultano Ahmed (detta anche “Moschea Azzurra”) è uno dei luoghi più belli e frequentati d’Istanbul, ma parcheggiare non fu affatto difficile; più problematico fu sopportare i nugoli d’ambulanti che volevano appiopparti articoli d’ogni genere: cartoline, cartocci di bruscolini, bigiotteria, gelati, foulard, giocattolini, ciambelle, bibite e via dicendo. Però era buona gente e anche se li mandavi sgarbatamente affan... non se la prendevano affatto. In mezzo a questa calca non mancavano i cambiavalute abusivi ma con quelli l’equivoco era sempre in agguato. Riporto qui (vivacizzandola un po’, come al solito) una scenetta cui capitava spesso d’assistere nei luoghi della città più battuti dai turisti. Mettiamo che Tizio chiedesse a Muhammad, cambiavalute abusivo: “Ehi amico. Quante lire italiane per una lira turca?”
“Quattordici, sir.”
“D’accordo, dammi cento lire turche.” (N.B. Somma più che sufficiente per una scorpacciata in un ristorante di buon livello)
“OK, sir... Ottanta, novanta, cento... Ecco qua.”
Un attimo dopo arrivava Caio, un compare di Tizio, e gli domandava: “Quanto te le hanno fatte pagare?”
“Quattordici.”
“Però, non male... E da chi le hai cambiate?”
“Da quello là, quello con i baffi neri.”
“Osteria! Qua tutti hanno i baffi neri.”
“Intendo quello con il cappello di paglia e i Ray-Ban.”
“Ah, quello... Accompagnami da lui.”
Quindi Caio chiedeva a Muhammad: “Cento lire turche, prego.”
“OK, sir... Ottanta, novanta, cento... Ecco qua; in tutto fanno milleottocento lire italiane.”
“Pezzo d’idiota!” sbraitava allora Caio all’indirizzo del compare “Che puttanate t’inventi? ‘Sto paraculo le cambia a diciotto.”
A quel punto Tizio apostrofava Muhammad: “Ehi, dico, a che gioco giochiamo? Un minuto fa a me le hai cambiate a quattordici.”
“Lei si sbaglia, sir. Io non l’ho mai vista né conosciuta e le lire italiane le ho sempre cambiate a diciotto.”
“Porc...” ringhiava Caio.
“No problem, sir. Se non siete d’accordo restituitemi i miei soldi e io vi restituisco i vostri. Però ricordate che qui attorno a meno di venti non ve le cambierà nessuno.” E, in quel preciso momento, era vero.
“Porc... E va bene, vada per diciotto.”
“OK, sir.”
Caio intascava bestemmiando le banconote turche e si congedava da Muhammad con un: “Fottiti, imbroglione!”
“Sorry, sir. I don’t understand... Thank you and bye.”
Delle due l’una: o il cambio della lira turca era molto fluttuante o Muhammad aveva trovato Tizio più simpatico di Caio. In ogni caso cambiare dagli abusivi era sempre più conveniente che cambiare in banca. Mentre attendevamo l’arrivo del Tonio e dei torinesi facemmo conoscenza con un gruppetto di turisti di Lecce giunti un paio di giorni prima a Istanbul con una motonave di linea che partiva da Venezia e faceva scalo anche a Brindisi. I signori avevano trovato alloggio in un albergo di Taksim, storico quartiere pieno di vecchi alberghi “tipici”. Pensando che la cosa potesse interessare il Tonio e relativa madre, chiesi di che si trattasse e uno del gruppo, con tono non del tutto convinto, rispose: “Beh, insomma... Però è molto centrale, costa poco e ha tutte le camere con bagno. Inoltre c’è ancora molto posto.”
“E quanto a pulizia?”
“Non è neanche male ma c’è una strana puzza... come di petrolio.”
Quando il buon Beppo mi spiegò che il petrolio serve a far fuori le cimici, restai alquanto perplesso e pensai che, forse, era meglio se il Tonio cercava alloggio altrove; quindi, appena arrivò, glielo feci presente ma la madre ribatté con fermezza: “Petrolio o non petrolio non me ne può importare di meno: sono sfinita e non intendo più girovagare perciò stasera dormiamo lì, poi staremo a vedere.”
Per la cronaca, dopopranzo, i due presero alloggio nell’albergo segnalato (gestito da un simpaticissimo grassone il quale aveva riempito ogni angolo libero con ritratti di Atatürk; alcuni avevano perfino la cornice di lampadinette) ma l’indomani di prima mattina si fiondarono all’“Hilton” è colà restarono per il resto del soggiorno. “Crepi l’avarizia!” commentò il Tonio tutto contento “Qua l’Hilton costa meno della pensione Miramare al Lido degli Estensi!” Dopo qualche altro minuto arrivarono anche i due torinesi sulla loro sferragliante 600 e - assieme a loro, al Tonio con madre al seguito e ai leccesi - decidemmo d’andare a mangiare.
Finalmente! Dalla partenza io e il Beppo non mandavamo giù un pasto da cristiani ma - con l’appetito che ci ritrovavamo - anche un pasto da maomettani andava più che bene. La cucina locale non era molto varia: soprattutto verdure al forno farcite con carne, spiedini alla brace e pesce fresco di buona qualità; purtroppo (per ovvi motivi) era consigliabile evitare insalate e (per altrettanto ovvi motivi) era inutile cercare qualcosa che avesse a che fare con il maiale; in ogni caso si trattava d’una cucina molto saporita e speziata, perfino gradevole (sempre che non siate i soliti italiani che pretendono i vermicelli al pomodoro o il pasticcio di lasagne anche in Perù). E poi c’erano buoni vini della riviera marmarica, buona birra ghiacciata e buon caffè forte e denso, da centellinare lentamente in quanto non filtrato. Infine i famosi cocomeri turchi: dolci, profumati e dissetanti, mica quella porcata di cocomeri bulgari.
Rileggendo quanto scritto in precedenza m’è venuto un dubbio: forse posso aver dato l’idea che Istanbul fosse una meta interessante solo per chi è motivato da particolari stimoli culturali, in altri termini per intellettualoidi in cerca dell’esotico. Ebbene, Istanbul non era (e non è) solo questo ma è anche un paradiso per i fanatici del consumismo e per gli affetti da quella moderna sindrome denominata “shopping compulsivo”, meglio se squattrinati. Nella Istanbul del 1967 si vendeva di tutto e molto di questo tutto a prezzi assai convenienti, soprattutto merci allora introvabili altrove (globalizzazione era una parola sconosciuta). Tale realtà non mi risulta sia cambiata di molto - anche se, oggigiorno, si sono aggiunte le vetrine di Prada e i saloni BMW - perché se c’è una professione nella quale i turchi eccellono è quella del commerciante e gli ambulanti cui sopra accennavo erano giovanissimi che apprendevano sul campo i segreti di tale professione. Personalmente trovai i commercianti costantinopolitani persone squisite e del resto non potevano permettersi di non esserlo, troppa concorrenza, ciò nondimeno credo si trattasse anche d’una tradizione perché è inevitabile che una città stesa tra due continenti sia un centro di scambi e tale fu sempre Istanbul nel corso della sua millenaria esistenza. In altri termini il commerciante costantinopolitano non era il solito buzzurro provincialotto italico che, ritrovandosi qualche soldo in tasca (o, peggio, impegnandosi anche le mutande) da un giorno all’altro s’inventa bottegaro, confida nella buona stella, imbroglia i clienti, evade il fisco, ignora che anche mandare avanti un piccolo “business” non è impresa da tutti e infine - se scopre di non farcela - piange miseria e bestemmia contro le tasse (che non paga). Al contrario, i commercianti che conobbi a Istanbul erano veri “signori” i quali consideravano la loro bottega - grande o piccola che fosse - una specie di “salotto buono” in cui accogliere l’ospite/cliente. Non per nulla - anche se si capiva lontano un miglio che eravamo due ragazzotti squattrinati - mentre io e il Beppo passeggiavamo davanti alle mille e mille botteghe costantinopolitane, ricevevamo continui inviti a “onorare con la nostra presenza” tali botteghe; né valeva precisare: “Ma non vede che siamo due morti di fame e non possiamo permetterci di comprare ‘na mazza?”... Macché: “No problem, sir. I am very glad if you come inside only to see.” E spesso ci scappava pure il caffettino o il the alla menta o il raki offerto dalla casa. L’“ombelico” del commercio costantinopolitano era il Gran Bazar, un vastissimo, indescrivibile dedalo di corridoi coperti da volte a botte sui cui s’affacciavano centinaia di botteghe che vendevano di tutto (tranne generi alimentari: per quelli c’erano i grandi mercati rionali), specialmente tappeti, capi in pelle, gioielleria a buon mercato (in argento od oro “rosso” da 14 kt) ma di fattura artigianale spesso elegante, vasellame in metallo sbalzato e decorato, oggetti in pietra dura, pipe di schiuma (le migliori del mondo), narghilè, antiquariato e via dicendo. Inoltre c’erano anche agenzie di viaggio e studi professionali... più qualcos’altro che non ricordo. In definitiva un sito assolutamente da non perdere.
Il vero divertimento, però, cominciava quando qualcuno voleva effettivamente comprare qualcosa e - anche in questo caso - mi sia consentito esemplificare con una piccola sceneggiata tipo. Il signor F.I. (F.I. sta per “Furbetto Italiota”, non quello che qualcuno potrebbe pensare) di Cernusco sul Naviglio - o di Pinzano al Tagliamento, o di Passignano sul Trasimeno, o di Lercara Friddi, tanto per dire - sta passeggiando assieme alla moglie lungo Istiklal Caddesi, in infradito, bermuda, “Lacoste”, “Canon” a tracolla e sguardo da cacciatore d’occasioni; un bel momento la signora vede un tappeto nel grande emporio del signor Nazim e dice: “Guarda caro, proprio quello che ci vorrebbe davanti al caminetto della nostra nuova villa.” Ovviamente l’interessamento della signora non sfugge allo smaliziato signor Nazim che invita i due nel suo emporio.
“Allora lo compriamo, cara.” sussurra il signor F.I. “Ma tu statti zitta che mi lavoro io il beduino. Si sa che ‘sti tappetari si credono dei furbacchioni ma a me non la raccontano.” Indi comincia la trattativa.
“Ottima scelta, sir.” dice il signor Nazim “Si vede che siete due intenditori di classe e ve lo posso dare per sole centomila lire.”
“Italiane?”
“No, turche, sir.”
“Ehi, se è uno scherzo non mi fa ridere... Al massimo ne vale diecimila.”
Il signor Nazim, alzando al cielo gli occhi pieni di lacrime, singhiozza: “Guardi sir, proprio perché è lei le faccio novantamila.”
“Ci mancherebbe! Ventimila e morta là!”
Non volendo tediarvi con una lunga trattativa simile a quelle tra Paperino e Zio Paperone, passo subito al finale: il signor F.I. e il signor Nazim s’accordano per cinquantamila e il signor F.I. conclude: “T’ha detto bene, amico, che ‘sto strofinaccio piace a mia moglie ma, fosse dipeso da me, non lo volevo manco gratis.”
Al che il signor Nazim, piangendo come una fontana, replica: “Allah m’è testimone, sir! Un altro affare come questo e chiudo bottega... Murad, impacchetta il tappeto per i signori italiani... Molto onorato per la vostra visita, sir.”
Usciti i due, il signor Nazim si frega le mani e ne ha ben donde: non capita sempre d’affibbiare a due provinciali italioti un tappeto fatto a macchina in una “factory” maoista del Sinkiang e che vale si e no quattromila lire turche; eh sì, gente, non tutti lo sanno ma già allora i taroccatori della Repubblica Popolare avevano iniziato la loro lenta avanzata verso occidente e la prima testa di ponte non poteva non essere Istanbul. Quanto al signor F.I. per anni mostrò agli amici il tappeto proclamando con orgoglio: “Pensate un po’, ragazzi: quel ladro d’un beduino voleva un centone ma io l’ho costretto a darmelo per metà... Proprio così. Gli ho fatto capire che c’ho mica scritto giocondo, io!”
Morale: a Istanbul comprare poteva essere una faccenda divertente e magari - con un po’ di pazienza - ci scappava pure l’affaruccio ma il concetto di “prezzo fisso” non era nel DNA dei commercianti turchi e di ciò doveva tenere conto anche chi avesse voluto comprare uno spillo.
Da quanto detto si può pensare che due fossero le principali attività dei cittadini d’Istanbul: il tassinaro e il commerciante. Tuttavia c’erano altre attività non meglio definite che richiedevano comunque di vestire un’uniforme. Per Istanbul giravano migliaia d’individui in uniforme, il guaio è che a me - non avendo ancora fatto la naja - quelle uniformi sembravano tutte uguali: tutte color kaki (almeno in Italia il kaki lo usa l’Esercito, il nero i Carabinieri, il blu l’Aeronautica e così via, per cui è più difficile confondersi), tutte decorate con ori, cordoni, stellette e medaglie, sicché non riuscivo a capire se i tizi in uniforme che incrociavo ogni venti passi fossero pompieri, colonnelli, vigili urbani, postini, parcheggiatori autorizzati e via dicendo. Cercate di capirmi; sarebbe stato oltremodo imbarazzante indicare a un tizio in uniforme la mia 500 parcheggiata, dirgli “Ehi amico, occhio che non me freghino”, allungargli una manciata di piastre per poi scoprire che si trattava d’un generale di divisione. A certa gente le uniformi per strada piacciono, in quanto aumentano la “sicurezza percepita”: soprattutto di questi tempi piace lo spettacolo di militari che rambeggiano a bordo di “Defender” - con tuta mimetica, basco, pistolona e anfibi - per le vie di molte città, limitandosi peraltro a controllare i documenti del primo marocchino che passa. Personalmente preferirei un maggior numero d’esperti sbirri in borghese che pizzichino i manigoldi con le mani nel sacco e li sbattano al fresco senza tanti complimenti. Poi magari i giudici li rimettono in libertà ma - dai e dai - chissà che, a furia di rompergli le palle, i manigoldi non si decidano a migrare altrove... ma forse pecco d’ingenuità. Comunque, ribadisco, un fatto è innegabile: vedere i nostri soldatini per le strade urbane piace a molte persone. Per esempio (cito a caso):
- Pensionati padani ex comunisti, gente malmostosa e sempre sull’orlo d’un travaso di bile. Alle nove a.m. questi soggetti escono per la spesa, alle nove e un quarto hanno già provveduto, alle nove e trenta cominciano ad andare per bettole con i loro consimili, alle dieci sono già ubriachi fradici e, non appena incocciano una pattuglia con annesso “Defender”, farfugliano “Bravi tosi... hic... ‘sti ostia de neri dovè copàrli tuti... hic... In mona!” e poco importa se i “neri” sono effettivamente negri o non piuttosto magrebini, moldavi, ucraini, polacchi, filippini o addirittura civilissimi scandinavi con doppia cittadinanza che non apprezzano certi simboli nei pubblici edifici.
- Anziane signore che ascoltano regolarmente “Radio Maria”, piangono di commozione quando Bruno Vespa presenta su “Porta a Porta” un servizio con tonache in primo piano, sono intimamente convinte che un certo signore sia un galantuomo vittima dei comunisti che spadroneggiano in Italia e che se il Santo Padre non si decide a indire una nuova Crociata, tempo qualche mese San Pietro diventerà una moschea.
- Il signor Ministro La Russa. Ebbene, a certa gente dico solo che - se la sicurezza urbana fosse proporzionale al numero di divise in circolazione - la Istanbul del 1967 avrebbe dovuto essere la città più sicura del pianeta, invece non era né più sicura né più insicura d’altre metropoli.
E con questo concludo questa serie di “flash” commentati. Come si vede non ho inteso presentare una guida (non è questa la sede) ma solo una serie d’impressioni soggettive e, oltretutto, datate. Sta di fatto che lasciai la città con un certo rimpianto perché, oltre che affascinante, trovai Istanbul una città divertente in cui mi proposi tornare... Ma non lo feci. A dire la verità sarei ancora in tempo ma forse è meglio rammentare Istanbul com’era in quegli anni ormai lontani: la città è cambiata, la società è cambiata, io sono cambiato e il rischio di subire una delusione mi suggerisce d’archiviare tra i bei ricordi quel soggiorno senza cercare di riviverlo.
Per chi non è ancora stufo ci sarebbe il resoconto del ritorno, ma mi si lasci il tempo di “ricaricare le batterie”. (continua)”
[Seconda Parte] [Quarta Parte]
Recensione inviata da Luciano De Dionigi di Padova
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7 Commenti
bravooooooooooooooooo
scrivi schiavo mezzo toscano...........
scrivi
scudisch scudisch
ahiaaaaaaaaaaa!
Una brutta notizia, gente: il solito, strafottuto malaccio s'è portato via il buon Beppo, una brava persona, semplice, garbata e colta anche se la scuola non gli era andata a genio (a riprova che, quando uno ama la cultura, poco importa quanto e cosa studia) e, se non basta, un buon padre di famiglia, un uomo stimato da quanti lo hanno conosciuto, un volontario che ha aiutato tanta gente operando con le ambulanze.
Anche se da tempo non ci frequentavamo più è sempre triste perdere chi ti ha accompagnato in una così bella avventura.
Addio Beppo e grazie della compagnia.
Che la terra ti sia lieve.
mi dispiace Ciano, è sempre brutto perdere un amico, un abbraccio.
Giustamente in chiesa non ci sono stati applausi, ma in questa sede (oltretutto il buon Beppo era anche una persona molto spiritosa) propongo una "standing ovation" virtuale.
Ti Ringrazio, mi hai fatto rivivere la tua esperienza mentalmente,abito vicino al Lido degli Estensi ed è sempre piacevole sentirne parlare come quanto realisticamente merita (poco) e tu citi :-)
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