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IN SCANDINAVIA CON LA SIMCA 1000 – P.2 ..by L. De Dionigi

SIMCA-1000
LE VOSTRE RECENSIONI“ AD AMBURGO
Sul far della sera eravamo nella metropoli anseatica; colà trovammo alloggio in una modesta pensioncina per “Gastarbeiter” gestita da una vecchia decrepita e sita all’ottavo piano d’un palazzone prospettante su una strada trafficatissima e rumorosa e, siccome anche lì faceva un caldo bestiale, fummo costretti a tenere le finestre spalancate. Ma le lusinghe della notte amburghese ci attendevano...
Uscimmo quindi in giacca e cravatta con destinazione “quartieri del vizio”. Dapprima visitammo la famosa strada delle ragazze in vetrina ma, più che di puttanieri, la strada pullulava di turisti nipponici che - famiglia al seguito - fotografavano a rotta di collo. Successivamente sbucammo sulla celebre “Reeperbahn” dove i summenzionati localini non mancavano; peccato che attorno ai relativi ingressi ronzassero nugoli di ceffi poco rassicuranti, oltre che di femmine piuttosto disinibite. Noi tre - studentelli d’una piccola città della profonda e bigotta provincia veneta - provammo quasi un senso di smarrimento; stavamo per rinunciare quando un “buttadentro” dall’accento meneghino ci apostrofò: “Uèi voi! Italiani, vero ragazzi? T’el chì l’ambient’ che fa per voi... Dai, entrate, vi vedete qualche bel numerino, vi bevete una birretta, vi divertite e spendete no una cifra.” Il buttadentro era un tipo gioviale per cui aderimmo al suo invito, ci sistemammo in un separé, ordinammo le birre e ci accingemmo a vedere il “floor-show” (allora si chiamava così).
Mentre una spilungona sexy come un traliccio ENEL eseguiva un desolante numero di “strip”, M disse: “Speriamo che il prossimo numero sia meglio... Uh... Dove diavolo s’e cacciato quel mona di P?” Senza che né io ne M ce ne avvedessimo, quel mona di P era stato adescato da una formosa entraineuse e trascinato in un separé adiacente, ma il fatto più allarmante era la presenza, sul suo tavolo, d’una bottiglia già stappata di spumante a base di polverine!
“Brutta razza di maniaco!” esclamò M “Che fai con quella troia?”
“Lasciami perdere!” rispose P “Ho già le mani nella [CENSORED].”
“E la bottiglia?”
“Quale bottiglia?”
“Quella lì davanti a te, idiota!”
“Porca la...” disse P sbiancando “Ma io mica l’ho ordinata... Adesso ci spennano!”
“No, caso mai adesso TI spennano... Beh, niente paura. Tu pensa a sbolognare la mignotta che al resto penso io.”
A questo punto va puntualizzato che M era un marcantonio alto e robusto, già campione regionale di nuoto, simpatico e disponibile ma anche un po’ arrogante e incazzoso, disposto a menare le mani se necessario e soprattutto assai poco propenso a lasciarsi infinocchiare. Meriterebbe un encomio per la grinta mostrata nella circostanza. Andò dal buttadentro milanese, lo prese per il bavero e ringhiò: “Adesso và dal tuo capo e dì a quel ladro che, se non si riprende la sua bottiglia di merda, gliel’infiliamo dove sai e poi piantiamo un casino... Mővet’ baüscia!” Lo sventurato, tremando come una foglia, confabulò con un ceffo stile Ucciardone il quale, vedendo M sfilarsi la giacca e sbottonare i polsini della camicia, borbottò qualcosa e assentì, sia pure di malavoglia. Il buttadentro, sempre tremando, tornò da noi e disse quasi implorante: “Va tutto bene ragazzi, tutto bene, ma adess’ l’è mej che ve ne andate... Date retta a me, andè főra di ball’, nel vostro interesse.”
“Bah,” commentai appena uscito “meglio così: lo show era una vaccata e ci siamo fatti tre birrazze a sbafo.”
“Io che conosco il tedesco” aggiunse M “ho capito cos’ha detto quel gran bastardo del padrone al suo paraculo: ha detto che avremmo meritato una lezione di quelle che dice lui.”
“Allora” intervenne P “abbiamo rischiato di brutto... Brava persona quel milanese, in fondo.”
“Taci mona, tutta colpa tua. Quando imparerai a non andar via di testa ogni volta che tira aria di [CENSORED]?” concluse M.
E la nostra “notte brava” amburghese finì lì. Tornammo alla pensione e, come penitenza, a P fu assegnato il terzo letto, del tipo a scomparsa; quando lo estrasse dal relativo cassone, P provocò un mezzo disastro per cui dovette dormire su uno scendiletto non senza aver prima recitato un rosario di moccoli.

A FLENSBURG
L’indomani raggiungemmo Flensburg e, una volta piantate le tende, ci recammo alla stazione ferroviaria dove avevo fissato l’appuntamento con la “pen-friend”, sedemmo a un tavolo del buffet, ordinammo le solite birre e restammo in fiduciosa attesa. Dopo qualche minuto vedemmo entrare una biondina allampanata ed espressiva come un merluzzo bollito. “Boia!” pensai “In fotografia sembrava molto meglio.” Non solo non aveva portato uno straccio d’amica ma s’era tirata dietro un biondino allampanato ed espressivo come un merluzzo bollito che presentò come suo moroso!
In quel momento non capii più un piffero: se la merluzza aveva qualche timore - tipo essere stuprata nel buffet della stazione da tre abietti giovinastri italiani - poteva darmi buca, ma che, oltre a essere una fetecchia, osasse presentarsi all’appuntamento assieme al fidanzato merluzzo lo ritenni un tradimento. All’epoca ero piuttosto permaloso e, anche se tentai di non darlo a vedere, m’incavolai di brutto; salutai i due merluzzi con qualche frase di circostanza in inglese, li presentai ai due compari e poi, silenzioso, umiliato e offeso, mi misi da parte fumando nervosamente fetidi sigari locali, trincando come una spugna birra alternata ad anice secco locale e lasciando che fossero M e P a intrattenere i due merluzzi. In tutta la vicenda ciò che più m’indignò fu proprio l’atteggiamento dei due ribaldi che ritenevo amici, i quali un po’ conversavano con gli sgraditi ospiti, un po’ sghignazzavano e mi sfottevano senza misericordia. Col senno di poi ammetto che in fondo non avevano tutti i torti ma aggiungere beffa volontaria a beffa involontaria esasperò il mio stato d’animo. Avrebbero potuto dirmi, che so: “Non prendertela, ma hai visto che cauterio? Meglio perderla che trovarla.” Oppure: “Via, si sa che ‘sti mangiapatate sono una razza diversa, non la pensano come noi.” O qualche altra frase consolatoria.
Macché! Lì a fumare, bere e sghignazzare... Giuro di non avere mai più subìto una simile umiliazione! Quando, sempre troppo tardi, la coppia di merluzzi si fu congedata, sbottai: “Sentitemi bene, brutti froci! Visto che siamo in stazione adesso vado in biglietteria a comprare un biglietto per l’Italia. Vi chiedo solo una cortesia: quanto rientrate da ‘sto viaggio di merda riportatemi le mie cose, poi potete pure andarvene affan...”
Solo allora i due ribaldi si resero conto d’avere esagerato e mi chiesero scusa; siccome avevo il difetto d’incazzarmi facilmente ma la virtù di disincazzarmi altrettanto facilmente, li perdonai e troncai la polemica concludendo: “Purché di questa faccenda non si parli più, intesi?”
La mattina successiva, placatasi la buriana, decidemmo di concederci un giorno di relax, dato che il camping di Flensburg si trovava sulla sponda del Mar Baltico il quale, non so altrove, ma lì si presenta come una megapozzanghera a bassissima salinità, gelida, torbida e zozza. Tuttavia eravamo giovani e forti e volevamo tentare un’impresa da raccontare ad amici e discendenti, per cui osammo l’inosabile: ci facemmo il bagno! Dopo trenta secondi ci accorgemmo che la megapozzanghera - oltre che gelida, torbida e zozza - era pure infestata da enormi meduse per cui schizzammo fuori dall’acqua a gambe levate. Anche non ci fossero state le meduse, non è che avremmo resistito molto di più: in fondo i ripugnanti invertebrati ci evitarono una broncopolmonite. Comunque l’anice secco locale si rivelò molto efficace per sedare i postumi dell’impresa. L’indomani varcammo la frontiera D-DK: eravamo finalmente nell’anticamera della favolosa Scandinavia!

Una riflessione prima di seguitare la “saga scandinava”.

Preciso che qui parlo della situazione nel 1965 e che non sono più tornato da quelle parti per cui ignoro se la situazione sia cambiata, ma dopo pochi chilometri in Danimarca avvertii una strana atmosfera: non so se rendo l’idea, ma mi parve d’essere giunto in una terra in cui chi aveva la fortuna di viverci era considerato “cittadino” e non “suddito”, una terra in cui si poteva constatare che il termine “buongoverno” non è un’astrazione socio-filosofica ma una realtà concreta, pur con qualche inevitabile “smagliatura” perché a questo mondo nulla è perfetto (men che meno gli automezzi, tanto per restare in tema). E, a proposito d’automezzi, trovai la Danimarca un vero paradiso per i possessori di “veterane”, o catorci che dir si voglia: pur essendoci allora un rapporto vetture/cittadini molto più favorevole che FIAT 508C 1939 in Italia, circolavano addirittura  vetture d’anteguerra, tipo “Balilla” tanto per intenderci. Dello strano fenomeno mi fu fornita una motivazione molto semplice: importazione (tutte le vetture erano importate), immatricolazione e circolazione erano soggette ad altissime imposte. In sostanza il governo danese diceva ai cittadini: “Se vuoi comprare una macchina sono cavoli amari, se poi la vuoi cambiare a ogni pipì di cane sono cavoli ancor più amari. Io spremo la tua auto come un limone ma in cambio ti prometto una cosa: i tuoi soldi serviranno per costruire case popolari dignitose in quartieri dignitosi, per fornirti istruzione e sanità a basso prezzo e ad alto livello, trasporti pubblici capillari, puliti ed efficienti, nidi e asili per accudire i tuoi figli senza che tu debba rinunciare al lavoro, indennità sufficienti se perdi il posto, assistenza agli handicappati, perfino carburanti a buon mercato, eccetera. Ti assicuro inoltre una buona pensione in quanto farò l’impossibile per impedire a certi politicanti di mettere le loro sudice zampe sui soldi che tu verserai per garantirti una serena vecchiaia. Infine avrai a tua disposizione istituzioni economiche e funzionanti e, anche se qui c’è un re, la monarchia ti costerà assai meno di certe repubbliche delle banane”. Promesse in larga parte mantenute e lo stesso dicasi per la vicina Svezia (meno esosa, però, nel tassare le auto). Per completezza d’informazione si deve sapere che – all’inizio del secolo XX – i paesi nordici erano tutt’altro che ricchi, erano terre di migranti, come dimostrano i numerosi cognomi scandinavi presenti in America e in Germania, quindi nessuno venga a dire: “Bella forza, quelli sono paesi ricchi da sempre”! Nel nostro paese invece si decise in modo diverso, e i risultati sono sotto i nostri occhi, solo certi tricotrapiantati che contano fingono di non aver occhi per vedere... Ma non buttiamola in politica: non è questa la sede. Piuttosto torniamo a noi.
Bruno, un ex marò danese conosciuto in camping ci consigliò un traghetto gestito dalla JKL (vedasi su Internet) ubicato a poca distanza dalla frontiera; la traversata era un po’ lunga (2 ore e mezzo) ma in compenso ti scaricava direttamente sull’isola di Sjǽlland dove c’è la capitale: poca coda all’imbarco, nave ottima, prezzo conveniente, mare calmo, sbarco veloce al porto di Kalundborg e da lì a Copenhagen in un’oretta circa.

A COPENHAGEN
La città è molto vivace e piacevole, con i suoi canali, le sue case tipiche, i suoi locali, i suoi abitanti (discreti ma cortesi e spesso moderatamente anticonformisti, almeno ai nostri occhi di provinciali italioti) però va detto che chi, come me, avesse già visto Amsterdam, resterebbe forse un po’ deluso: a mio avviso la metropoli olandese rimane la più bella tra le capitali nordiche. Quanto all’aspetto che più c’interessava, vedemmo parecchie belle ragazze, bionde, slanciate e dall’atteggiamento socievole, ma nulla di particolarmente eclatante. “Stasera facciamo un giretto e vediamo meglio. Intanto sistemiamoci.” decretò M un bel momento.
“Proprio adesso? Scordatelo!” ribatté P “Guarda lì avanti che pezzo di [CENSORED]! Metti la prima, così la seguiamo pian pianino e poi vediamo d’agganciarla.”
“Però cammina in un modo che...” obiettò M.
“Fà come ti dico, e subito!”
Poco davanti a noi, nella nostra stessa direzione, sul marciapiede procedeva a lunghe falcate una creatura alta e snella con una splendida criniera bionda e ondulata che le scendeva fino a metà schiena. Indossava un completo giacca-pantalone nero molto chic, un genere di capo che anche in Italia cominciava a prender piede tra le donne.
“Avanti piano... così. Sempre più piano... Dev’essere una modella...” disse P abbassando il vetro dalla parte del marciapiede “Adesso superala che l’aggancio.” Ma P non agganciò un piffero perché, appena superato il presunto pezzo di [CENSORED], notammo che ostentava un paio di baffi e una barba lunghi e biondissimi! P sbottò in una lunga ed elaborata bestemmia condita da improperi contro certi non meglio identificati “culattoni”, mentre M ghignò: “E poi il pirla sarei io... Lo dico sempre: sei uno squilibrato. Adesso hai addirittura le visioni.” A quel punto mi sentii in dovere di prendere le difese del povero P.
“Beh, diciamolo:” commentai “visto da dietro sembrava proprio un gran pezzo di [CENSORED].”
La verità è che non eravamo avvezzi a certi soggetti perché in Italia, all’epoca, i cosiddetti “capelloni” - specialmente in una società chiusa e retriva come quella in cui vivevamo - erano rarissimi e fortemente invisi ai benpensanti, per cui l’equivoco di P era giustificabile. Aggiungo che lo spiacevole episodio si ripeté ancora un paio di volte ma poi imparammo a distinguere la differenza già da lontano. M chiuse l’incidente con la sua tipica prosopopea: “Io l’ho capito subito che qualcosa non funzionava; adesso tutti in campeggio e basta cazzate, per quelle c’è tempo.”
Il campeggio di Copenhagen era un vasto rettangolo erboso, leggermente ondulato e senza manco un albero, ubicato in un quartiere di periferia anonimo ma ben tenuto. Pullulava di gente come un lazzaretto ai tempi della peste ma un francobollo di terra lo trovammo ugualmente. Piantate le tende, mi guardai attorno e fui colpito da uno spettacolo inatteso: la maggior parte degli appestati... pardon, degli ospiti erano giovani italiani - ma non solo - giunti lì con i mezzi più disparati: in prevalenza
VW T1 AutoDiMerda, ma anche furgoni VW in stato terminale, moto rappezzate, scooter scassati; i più temerari avevano viaggiato in “Willier” da corsa stracarica di roba, in autostop o con i mezzi pubblici (non con l’aereo: all’epoca costava troppo). Due catanzaresi erano arrivati dopo un’interminabile odissea superata grazie ad autostop, treni, traghetti e autobus; dormivano entrambi in una “Pinetina” come la mia e ci riuscivano solo perché erano piuttosto minuti e le loro masserizie erano sparse tutt’attorno. In conclusione quei coetanei erano tutti di sesso maschile! Lo si poteva quasi definire un fenomeno migratorio monosex. A quel punto dissi a M con tono sarcastico: “Davvero una bella idea quella di venire qua in capo al mondo a caccia di [CENSORED]. Altro che ravanare! Prevedo una concorrenza spietata: così, a occhio, per ogni [CENSORED] libera, maggiorenne e che non sia proprio un rutto ci saranno almeno trenta mandrilli arrapati come P che se la contendono.” P saltò su.
“Ehi tu, merdone, chi sarebbe il mandrillo arrapato? Bada che ti rovino... Però è vero: prevedo poca trippa per gatti, senza contare che certe facce farebbero scappare le baldracche di Amburgo.”
“Deficienti!” ci redarguì M “Copenhagen fa quasi un milione d’abitanti, volete che non troviamo da divertirci? E poi, se qua ci va buca, resta sempre la Svezia.”
“Perché, cosa pensi di trovare in Svezia?” chiesi scettico.
“Te l’ho detto: da ravanare.”
“Daje! E tu come lo sai?”
“Lo sanno tutti tranne voi due ignoranti e poi è così perché... perché lo dico io e basta con il disfattismo!”
Certe volte M è proprio indisponente. La sera passeggiammo per la città e ci recammo per un paio di “Tuborg” in un “bistrot” simil-parigino pieno di gente dall’aria intellettualoide. Quando fummo riconosciuti come italiani, un tizio con occhialini e barbetta da esistenzialista dichiarò d’essere un grande conoscitore della narrativa italiana; quando gli domandai quali fossero le sue competenze in materia mi rispose: “Don Camillo”... Intendiamoci: per me Guareschi è uno dei più grandi umoristi nostrani e “Don Camillo” un capolavoro del genere, ma che, tra i tanti libri italiani, uno conoscesse solo quello e pretendesse d’atteggiarsi a esperto della nostra letteratura mi fece sorgere il dubbio di trovarmi di fronte al solito intellettuale da strapazzo, megalomane e pieno di cacca. Tuttavia rimasi ancor più perplesso (e contrariato) quando tirammo fuori le sigarette - in Germania, profittando del modico prezzo, avevamo comprato alcuni preziosi pacchetti di “Rothman’s” e di “Peer Export” - e fummo assaliti da un nugolo d’avventori dall’aria squattrinata che scroccarono sigarette senza ritegno. Uno ci spiegò che le sigarette in Danimarca erano super tassate: col senno di poi la ritengo una tassazione giusta ma allora mi sentii letteralmente depredato. A un certo punto M dichiarò: “Qua, gente, non si batte chiodo, in compenso ‘sti parassiti si fumano le nostre misere risorse. Meglio andare a nanna. Oltretutto sta per piovere e la pioggia non è l’ideale per rimorchiare.”
Un cupo brontolio preannunciava infatti la fine del bel tempo che aveva sino ad allora accompagnato la nostra avventura. Quando arrivammo al campeggio già pioveva a secchiate e il temporale durò tutta la notte; tuttavia, la mattina dopo, un bel sole caldo illuminava uno spettacolo desolante: il terreno era ridotto a una palude in cui gli alluvionati... pardon, gli ospiti s’aggiravano smarriti cercando d’asciugare le masserizie, soprattutto i due catanzaresi. Noi tre fummo fortunati: nonostante ci trovassimo circondati da uno strato di fanghiglia alto una spanna, le nostre tende erano quasi indenni. M s’alzò praticamente a mezzogiorno - e solo dopo numerose contumelie da parte di P - quando ormai il terreno era drenato e il sole picchiava: il dormiglione trovò già pronta un’enorme spaghettata condita con un vasetto di pomodoro “Star” (materia prima prelevata dalla “cambusa” comune). Peccato non ci fosse parmigiano ma, all’epoca, i frigo portatili non esistevano ancora per cui non avevamo generi deperibili. L’immancabile sequenza d’“ombre” rosse innaffiò il pasto monopiatto. Intanto il cielo aveva ripreso a rannuvolarsi.
“Che si fa?” chiese P.
“Un po’ di siesta e poi andiamo in centro.” decretò M.
“Siesta? Hai ancora sonno? Chi dorme non piglia pesci.”
“Voi due fate pure il cazzo che volete, io torno a dormire... e non mettetevi idee in testa, tanto la Simca non ve la presto.”
“Il solito egoista!” ringhiò P.
Verso le quindici, quando M si degnò di svegliarsi, ci recammo in centro sotto una pioggerella gelida e ostinata. Visto che il clima non assecondava le nostre ricerche decidemmo di riparare nella “Carlsberg Gypsothek” – un po’ di turismo culturale ci voleva, tanto per non sentirci dei fissati - che poi non era una gipsoteca ma un museo vero e proprio, piuttosto pregevole e soprattutto “a dimensione umana”, ma qui mi sia consentito un chiarimento.
Personalmente trovo asfissianti i “musei-monstre” dove trovi di tutto e di più, da cui esci distrutto dopo avere percorso chilometri e tanto stufo da convincerti che, in fondo gli antichi egizi scolpirono statue tutte uguali, Raffaello non era altro che un imbianchino e Canova una scalpellino. Contengono, è vero, tesori incomparabili ma sono dispersi in mezzo a tanta di quella roba che, alla fine, una persona normale come me viene assalita da un senso di nausea. In particolare trovo micidiali le sale - spesso numerose - che ospitano certi “lenzuoloni” di Pietro Paolo Rubens (pittore fiammingo del 600): poiché non è possibile che a un solo uomo sia bastata un’intera vita per dipingere tanta mercanzia, penso si tratti di lavori elaborati dalla sua bottega, la quale doveva essere una sorta di “General Motors” della pittura secentesca, che sfornò QuadriDiMerda in quantità industriali. Per visitare la “Carlsberg Gypsothek” con una certa attenzione impiegammo tre ore scarse, vedemmo parecchie opere notevoli e ci riparammo dalla pioggia: una rilassante parentesi culturale, in definitiva. All’uscita, fermi sul marciapiedi, stavamo decidendo circa il da
FIAT 1100D 1965 farsi quando una Fiat 1100 bianca con targa della nostra città c’indirizzò una strombazzata. S’immagini la nostra sorpresa quando vedemmo che si trattava di C, un compagno d’università che infilava trenta e lode uno dietro l’altro, ma che, quanto al resto, era ritenuto da molti un perfetto imbranato. C scese dalla 1100 bestemmiando come un turco e, dopo i saluti di rito, ci espose la sua triste vicenda. In sostanza era accaduto questo: due suoi compari, un mese prima, al mare, avevano conosciuto due ragazze di Copenhagen che li avevano invitati a trascorrere qualche giorno nella loro città; il guaio era che i due compari non avevano un automezzo, mentre lui aveva la 1100. Tanto avevano brigato e tanto avevano promesso (Roba tipo: “Suvvia C, dacci uno strappo. Non c’è problema: figurati se quelle due non hanno qualche amica. Pensiamo noi a trovarti compagnia” e via dicendo) che C aveva acconsentito. Una volta giunti a Copenhagen i due scellerati s’erano installati a casa delle due ragazze e avevano scaricato il meschino da un affittacamere lasciandolo con un palmo di naso. “Quei mascalzoni... Quelle carogne... Quei figli di troia!” sbraitava come un ossesso “Da tre giorni giro come un mona per ‘sta dannata città perché non so cosa fare!... Ah, ma so ben io come sistemare quei due: adesso prendo su e me ne torno in Italia da solo... Io li distruggo... Io m’incazzo! Proprio così, io m’incazzo!” C rifiutò quindi il nostro invito a consolarsi con una birra in nostra compagnia, risalì bestemmiando a bordo della 1100 e riprese il suo vagabondare. Non seppi mai come andò a finire ma dubito che i due scellerati mantenessero le promesse; dubito peraltro che C li abbia piantati in asso, per due motivi: in fondo C sperava che finalmente un’amica delle due danesi saltasse fuori e poi era noto come soggetto alquanto parsimonioso, di conseguenza la sola idea di non spartire il costo della benzina per il ritorno in patria lo sgomentava.
“Qua continua a piovere per cui sono rotto. Domani vediamo se in Svezia il tempo migliora.” decretò M. Concludemmo la piovosa serata in una “Cafeteria” ingollando “smörrenbröd” (= pane e burro), tipiche tartine danesi ad alto tenore di colesterolo e guarnite con i più svariati ingredienti: si trattava d’una delle poche specialità locali commestibili, a patto di controllare la guarnizione onde evitare il rischio di scegliere aringhe crude su marmellata di lamponi o paté di fegato di merluzzo.
In proposito, illustrare la cucina scandinava dell’epoca richiederebbe un ributtante Amarcord a parte; per questo motivo e per evitare conati di vomito a chi legge, credo sia il caso di soprassedere... ma temo dovrò tornare ancora sull’argomento. Poi le solite due o tre birrazze e infine in tenda a beccarci i reumatismi. (continua)”

[Prima Parte]                                                                        [Terza Parte]

Recensione inviata da Luciano De Dionigi di Padova

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2 Commenti

manny ha detto...

bravoooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooo

Luciano ha detto...

Grazieeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee

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