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COSE… TURCHE – P.4 ..by Luciano De Dionigi

FIAT_500

LE VOSTRE RECENSIONI

“Ho molto indugiato prima d’affrontare la stesura di questa quarta e ultima parte del mio Amarcord “Cose... turche” un po’ perché a corto d’ispirazione, un po’ perché, durante il lungo rientro da Istanbul, vicende o curiosità degne di nota non ve ne furono molte. Dunque, se ho ripreso “penna e calamaio”, un po’ l’ho fatto perché non mi piacciono le “incompiute” (tipo autostrada SA/RC), ma soprattutto per recare il mio sentito omaggio al Beppo - mio ottimo compagno d’avventura - che, lo scorso autunno, ha lasciato questa terra nonché un affettuoso rimpianto in quanti lo conobbero. Bene, cominciamo...

Non rammento l’ora in cui, avviata la mia 500 miracolosamente sopravvissuta senza un graffio al traffico costantinopolitano, ripresi la strada che puntava a Occidente ma so che, in serata, raggiungemmo Sofia ove trovammo una piacevole sorpresa: all’ingresso est della città c’era un altro camping di livello assai superiore rispetto a quello in cui avevamo pernottato all’andata trovandovi poco più che un’accoglienza simpatica, un ambiente tranquillo e tre bolognesi in Fiat 125 che ci avevano gentilmente sfamato. Reception da grand’hotel, viali e spiazzi ordinati e tenuti come si deve, servizi pulitissimi, illuminazione persino eccessiva, market fornito e, soprattutto, un bel bar/ristorante con musica di sottofondo, nel quale operavano inappuntabili camerieri in smoking color vinaccia. Tanto “sfarzo” m’indusse a pensare che la struttura fosse gestita da qualche multinazionale (come del resto era anche il “Mocamp BP”I migliori  e meglio attrezzati campeggi di Istanbul sono quelli appartenenti alla catena Mokamp Kervansaray e B.P. Mocamp. Le tariffe sono molto convenienti, in alcuni casi decisamente economiche (2/4 Euro) - sono frequentati perlopiù da turisti stranieri. d’Istanbul): in sostanza poco a che vedere con la sensazione di grigiore, se non di ristrettezze, che caratterizzava la realtà bulgara negli anni 60. Non ricordo quanto ci costò quel piacevole intermezzo e, se non lo ricordo, vuol dire che l’impatto sulle riserve pecuniarie - con la lancetta dell’indicatore che tendeva sempre più verso “E” (empty) - fu modesto, tenuto anche conto che, dopo la lunga e monotona galoppata da Istanbul a Sofia, ci concedemmo un lauto pasto e ripetute libagioni, dato che nei paesi del blocco orientale gli alcolici avevano prezzi stracciati, tanto che quelle scalognate popolazioni ne approfittavano per annegare nel bicchiere le loro malinconie. Devo per inciso osservare che, anche se le cose sono cambiate, l’amore dei popoli slavi per le bevute non sembra venuto meno, per questo in molti paesi ex-comunisti vige la “tolleranza zero” nei confronti di chi si mette al volante dopo avere alzato il gomito: in altri termini anche una birretta può provocare grossi dispiaceri... Da non dimenticare, se qualcuno che mi legge pensasse a un viaggio in quelle contrade e non ne conoscesse le usanze.
Ripartiti da Sofia, si pose un problema: la sola idea di dover riaffrontare la micidiale “Autoput”La  costruzione dell'autostrada "Fratellanza e Unità" Autoput è iniziata su iniziativa del presidente della ex-Jugoslavia Tito con lo sforzo del dell'Esercito popolare jugoslavo e del volontariato giovanile. Aperta nel 1950 l'Autoput è diventata negli anni '60-'70 un percorso molto frequentato dagli immigrati turchi in Germania Ovest e per i turisti del sud Europa. ci dava il voltastomaco, per cui presi in considerazione un itinerario studiato da Tonio che consisteva nel lasciare la direttrice Niš - Belgrado all’altezza d’una cittaduzza chiamata Pojate, non lontana da KragujevacCittà  della Serbia sede dell'industria automobilistica Zastava. Nel corso della guerra dei primi anni '90 la fabbrica Zastava venne distrutta: persero così la propria occupazione 38.000 operai. Dal 2008 lo stabilimento appartiene alla FIAT. - grosso centro in cui si producono degli arnesi su quattro ruote disinvoltamente spacciati come “made in Italy” - e, girando a sinistra, procedere in direzione Montenegro verso la capitale Podgorica, che allora si chiamava Titograd (a ridaje con ‘sto Tito!), e da lì fino a Kotor (Cattaro) sulla costa dalmata, già allora rinomata per le sue attrattive. Non ho mai chiesto a Tonio se abbia poi percorso lo stesso tragitto, so solo che, mentre lo percorrevo io, gli indirizzai un uragano d’insulti inframmezzati da eresie, imprecazioni e turpiloquio assortito.
All’inizio il percorso era quasi normale però, quando trovammo un ponte condiviso con una ferrovia, un allarme cominciò a squillare nella mia mente. In pratica la faccenda funzionava così: c’era un normale ponte ferroviario che, grazie all’aggiunta di tavoloni ai lati dei binari, consentiva anche il transito di mezzi su gomma, il tutto gestito da un sistema di barriere mobili e semafori che non agevolava certo il traffico. Dopo una lunga attesa (possibile che tutti i treni serbo-bosniaci dovessero passare proprio di lì?) attraversammo il ponte che gemeva paurosamente sotto il peso dei soliti rugginosi autotreni stracarichi non si sa di cosa, i quali venivano non si sa da dove e andavano chissà dove.
Dopo il ponte incontrammo alcune tranquille “mutand-city” e il perché di questo curioso appellativo richiede un’altra digressione. Il fatto è che all’epoca, in Jugoslavia, vigeva il cosiddetto orario continuato, ossia le aziende operavano dalle 6 alle 14, poi tutti a casa. Di conseguenza i lavoratori avevano a disposizione una buona fetta di pomeriggio per farsi gli affari loro. Nella zona in questione non dovevano esserci grossi centri ricreativi in cui trascorrere le ore di libertà, in compenso faceva un caldo maledetto e c’erano corsi d’acqua (allora) balneabili (Piscine? Non pretendiamo troppo! Ci trovavamo nella Serbia meridionale degli anni 60, mica ad Acqualandia!). Di conseguenza la popolazione maschile rientrava a casa, si spogliava, metteva slip e infradito e, in tale tenuta, percorreva le vie urbane per andare a godersi un po’ di meritato refrigerio nelle “chiare, fresche, dolci acque” che lambivano l’abitato. Tra quelle squadre di pacifici mutandieri c’era anche qualche donna, ma non va dimenticato che la popolazione era in buona parte islamica, per cui le uniche femmine autorizzate a percorrere le vie cittadine in bikini ascellari erano pressoché inguardabili... Pare quasi impossibile che quelle tranquille cittadine sarebbero diventate teatro di scontri e stragi durante la guerra civile jugoslava, eppure tutto questo accadde. Anche la fabbrica di Kragujevac fu bombardata, il guaio è che fu troppo presto riattivata, a riprova che “Le Auto di Merda non muoiono mai!”
All’orizzonte si stagliavano le aspre catene del Montenegro e, appena raggiunte, cominciò il calvario: interminabili sterrati angusti, tortuosi, pulverulenti e costellati di buche risalivano vallate semideserte e desolate. A un certo punto la carreggiata sparì: un torrentaccio che la costeggiava s’era mangiato una decina di km, di modo che - siccome il torrente, nel periodo estivo, era ridotto a un rigagnolo - una squadra di ruspe aveva spianato alla meglio la pietraia ricavando una sorta di pista da motocross su cui deviare il traffico; fu su tale pista che temetti di dover abbandonare la 500 e di dover rimpatriare, prelevate targhe e carta di circolazione, con mezzi di fortuna, magari con il foglio di via, visto che le riserve finanziarie erano agli sgoccioli (già, ma dove trovare, tra le severe giogaie del Montenegro, un funzionario che rilasciasse i fogli di via a due pellegrini squattrinati?). Il buon Beppo continuava ad accusarmi di non saper leggere le carta e d’avere imboccato una strada non segnata, se non che la prova che la strada era proprio quella giusta arrivò sotto IKARUS 1967forma   d’un monumentale pullman Ikarus che ci s’accodò strombazzando mentre procedevamo a passo d’uomo zigzagando tra le buche. Al primo slargo lo lasciammo sorpassare; l’autista c’indirizzò un gesto osceno e sparì in un polverone da silicosi, non tanto velocemente però da impedirmi di scorgere il cartello “Avtoservis Beograd - Titograd - Kotor”, insomma una specie di “Greyhound” serbo dell’epoca; poco dopo incrociammo un Ikarus gemello che percorreva lo stesso tragitto all’incontrario. Il che confermò che quel tratturo da capre era proprio una statale federale di grande comunicazione e che la carta l’avevo correttamente interpretata. Il buon Beppo tacque ma non sembrava convinto...
Per tirarci su decidemmo di mettere qualcosa sotto i denti: la cambusa offriva una pagnotta e due scatole acquistate non ricordo dove, con una testa di mucca stampata sull’etichetta; ma non si trattava di un’invitante carne in gelatina tipo Manzotin, bensì d’un vomitevole paté, speziato all’inverosimile e terribilmente somigliante a diarrea condita con ajvar (tipica salsa piccante serba). Ovviamente il pranzo si limitò a qualche frustolo di pagnotta mandato giù con l’acqua della borraccia militare che il buon Beppo riforniva a ogni occasione; è vero che, di quando in quando, incrociavamo delle stazioni con colonne carburante ad azionamento manuale e annesso sgabuzzino pomposamente chiamato “Buffet”, peccato che tali strutture non invitassero minimamente a una sosta, sia per l’aspetto che per la fauna bivaccante all’esterno.
Corri e corri (si fa per dire: se due giorni per compiere, sia pure in 500, circa 400 km vi sembrano pochi...) la strada bianca finì e una parvenza d’asfalto tornò a rivestire la carreggiata consentendo di sfiorare perfino i 50; in ogni caso la cinquecentina ce l’aveva fatta ancora una volta! Verso sera giungemmo in una piccola località termale ubicata tra boschi, in un ambiente fresco, rilassante e idoneo a riprenderci dal massacrante percorso; siccome c’era un campeggino molto spartano decidemmo di pernottare lì: la doccia fu alquanto sommaria dato che l’acqua calda, tra i boschi del Montenegro, era merce rara e preziosa, ma bastò a provocarmi un brusco sommovimento intestinale... e qui mi trovai in una situazione davvero imbarazzante: l’addetto alla pulizia dell’unica latrina (alla turca) del campeggio doveva essere in malattia da almeno tre settimane; per fortuna lì accanto c’era un rubinetto con la canna per innaffiare e uno scopino il cui aspetto lascio immaginare a chi legge, per cui - dominando il ribrezzo e gli impellenti stimoli gastroenterici - riuscii a rendere, se non proprio limpido, almeno fruibile il servizio, se così si può chiamare un locale di decenza che farebbe schifo anche su un treno pendolare Treviso - Venezia.
Mentre stavamo per coricarci, arrivò dal paese un gruppo di tamarri d’ambo i sessi (ovviamente le tamarre presentavano le solite pelosità tipicamente balcaniche) per fare un po’ di caciara, dato che il “fico” della compagnia era proprietario d’un “Grundig” a pile - grande poco meno d’una cassapanca - il quale sparava “a palla” nenie e inni partigiani trasmessi da chissà quale emittente, e che qualche cartone di birra teneva compagnia alla poco discreta congregazione. Il Beppo cominciò a incazzarsi, ma io lo invitai lasciar perdere ché presto quella gente se ne sarebbe andata e poi, aggiunsi, in fondo erano solo dei bravi ragazzi i quali non potevano permettersi una vacanza come la nostra, e così via... In realtà il mio timore era che si scatenasse una zuffa in cui non solo avremmo avuto la peggio, ma avremmo pure rischiato di finire al fresco, dato che - anche nei paesi più civili - gli sbirri locali tendono sempre a dar torto ai forestieri. Oltretutto, man mano che il tasso alcolico saliva, alcuni avevano cominciato a guardare, con preoccupante attenzione, la macchina dentro e fuori, per cui l’unica strategia possibile fu quella di chiudere a chiave le portiere e restare - muti e con gli occhi bene aperti - fuori dalla tenda fino a quando la comitiva non si decise a levarsi dai co****ni. Meno male che, come sopra accennato, in Jugoslavia le attività lavorative cominciavano alle 6 per cui i tamarri smammarono abbastanza presto e potemmo finalmente infilarci nel sacco a pelo e goderci una meritatissima dormita.
Dopo questa sosta ci attendeva un’altra piacevole sorpresa: finalmente la strada riprendeva l’aspetto d’una statale normale e in certi tratti era stata sottoposta a notevoli opere d’ammodernamento, sicché potei finalmente “scatenare” la potenza della 500, con un occhio al traffico, fattosi piuttosto intenso. Anche il paesaggio era diventato più dolce, specie sulle rive del grande lago di Scutari, al confine con l’Albania, dove numerosi pescatori esibivano “grappoli” di splendide carpe da vendere agli automobilisti in transito. Devo tuttavia ammettere che quest’ultima parte dell’avventura non ha lasciato grandi ricordi in me: ormai i soldi erano quasi finiti e l’interesse per le attrattive turistiche molto scemato; inoltre il buon Beppo era stato colto da una crisi di nostalgia per cui non vedeva l’ora di ricongiungersi con quella che sarebbe poi diventata la compagna d’una vita. Tuttavia a Kotor non mancammo d’ammirare il grandioso fiordo detto “Bocche di Cattaro” ingentilito dalla presenza, lungo le sponde, di numerose “bellezze al bagno” le quali, in quanto prevalentemente tedesche, scandinave e francesi, non mostravano l’ipertricosi che caratterizzava le femmine balcaniche... Peccato che tempo e denaro non ci permisero d’approcciare qualche “contatto ravvicinato”. Tra l’altro ritrovammo i torinesi conosciuti a Istanbul: probabilmente avevano percorso il nostro stesso itinerario (altri itinerari erano certamente peggiori) e mi stupii che la loro vetusta 600 avesse superato la prova. Quattro chiacchiere, un breve saluto e poi ognuno per la sua strada. Da Kotor in su fu solo una galoppata lungo la splendida costiera dalmata, che potemmo ammirare molto sommariamente, anche perché l’intenso traffico non consentiva di distogliere troppo lo sguardo dalla carreggiata. Pernottamento a Split (Spalato) in un camping sovraffollato e l’indomani, in serata, finalmente a casa sani e salvi, vettura compresa.
Quanto alla 500, la tenni ancora 5 anni e l’anno successivo mi scarrozzò fino a Madrid; salvo due rotture piuttosto serie (ma tanto riparare una 500, anche gravemente avariata, costava meno che risuolare un paio di scarpe), mi servì fedelmente superando i 70000 km. Forse nel suo motorino ce n’erano ancora altrettanti, ma ormai percepivo uno stipendio fisso per cui decisi che la limitata potenza, la scomodità e, soprattutto, NUOVA FIAT 500qualche doloretto alla schiena la rendevano poco idonea ai viaggi.  Cionondimeno non posso non pensare che, come city-car, la vecchia “Nuova 500” sia tuttora imbattibile e che la nuova “Nuova 500”, su un percorso tipo quello da me descritto, avrebbe grossi problemi... Attendo smentite.
That’s all, folk!”

[Terza Parte]

Recensione inviata da Luciano De Dionigi di Padova

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2 Commenti

ANhIMA ha detto...

Attendo con ansia Madrid amigo :)

Jerrycbm ha detto...

Recensione graziosissima, Luciano!

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