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COSE… TURCHE – P.2 ..by Luciano De Dionigi

FIAT 500
LE VOSTRE RECENSIONI“L’ Autoput era percorsa anche da moltissime vetture con targa tedesca; in prevalenza vecchie Taunus, Rekord o Mercedes 190,  MERCEDES W110insomma tutte berlinone piuttosto  capienti, tutte con il   portapacchi sul tetto stracarico di bagagli e suppellettili, tutte pilotate da omoni caratterizzati da foltissimi baffi neri e grossi occhiali affumicati, tutte con all’interno donne in chador e nidiate di bimbi che dormivano o facevano casino o mangiavano e bevevano un sacco di troiate. Qualcosa mi disse che, forse, non si trattava di turisti crucchi. Crac... Thump... Sock... Ogni tanto alcuni sbirri della “Milicija”, da soli o a coppie, fingevano di sorvegliare il traffico; in realtà occhieggiavano i turisti in transito cercando un pretesto per taglieggiarli e arrotondare così i magri stipendi. Fortunatamente, quella volta, non fui vittima dei loro imbrogli ma in seguito sperimentai di persona tale “modus operandi” e ne conclusi che, se gli “sbirri fottuti” esistono in tutte le polizie del mondo, gli “sbirri fottuti” della Milicija erano doppiamente fottuti.
Crac... Thump... Sock... Bastaaa! Adesso o la va o la spacca! Affondai l’acceleratore e affrontai l’Autoput alla folle velocità di 90 km/h, deciso a rischiare il tutto e per tutto pur di porre termine a quel tormentone il più presto possibile (tanto avevo l’Europ Assistance...). La 500 resistette alla grande e verso mezzogiorno/l’una entrammo in Belgrado, ove potemmo finalmente tracannare qualche “pivo” ghiacciata ingollando panini imbottiti con fette d’un insaccato non precisamente definibile, che però a noi sembrò una vera leccornia. Un breve giro per la città (non brutta ma praticamente priva d’interesse turistico) ci consentì di notare che a Belgrado qualche discreto mammifero di genere femminile non mancava, purtroppo però il look all’occidentale non era diffuso, e non tanto nell’abbigliamento quanto nelle “rifiniture”. In particolare sembrava che il vecchio proverbio “donna pelosa, donna virtuosa” fosse stato recepito come una direttiva del Comitato Centrale: gambe spesso ben strutturate sfoggiavano un’ipertricosi la quale dimostrava come “Veet” e cerette fossero articoli sconosciuti tra le fanciulle belgradesi... per tacere poi di certi orripilanti ciuffi ascellari. A Belgrado l’allucinante Autoput finiva e - per completezza d’informazione - dirò che nove anni più tardi la ripercorsi in occasione d’un viaggio in Grecia. La situazione non era granché migliorata anche se c’erano numerosi tratti ripavimentati in asfalto, ma erano di quelli che uno dice: “Oooh, finalmente... Merda! È già finito”.
INNOCENTI MINI 1975 Inoltre viaggiavo in Mini e, anche se le famigerate sospensioni Hydrolastic rendevano più stabile la vettura, le mie povere vertebre subirono una nuova mazzolata. Dopo Belgrado imboccammo la statale per Niš, grosso centro urbano dove l’itinerario si biforca: proseguendo verso sud si va in Macedonia e Grecia, verso est invece si va in Bulgaria e Turchia. La statale non era molto meglio dell’ Autoput ma, se non altro, il paesaggio era più mosso e piacevole e il sole meno implacabile che nel bassopiano serbocroato, per cui - visto il traffico sempre intensissimo e la tortuosità della strada - decidemmo di procedere a un ritmo più rilassato. Prima di Niš ci fermammo in una piazzola con rubinetto a riempire le borracce e a darci una rinfrescata; manco a dirlo, poco distante, s’ergeva il solito montarozzo di rifiuti non riciclati. Un bel momento da dietro il montarozzo sbucò una “bella di giorno” in hot - pants bianchi (Bianchi? Si fa per dire), canotta rossa, ipertricosi d’ordinanza e - nonostante l’età ancor giovane - dentatura da revisionare; la ragazza, nella nostra bella lingua, dichiarò il suo apprezzamento per un particolare anatomico dei maschi italiani e, di conseguenza, formulò una proposta indecente. Forse il buon Beppo - giovane ma già navigato puttaniere - temeva che il sole m’avesse rincretinito, dato che mi rifilò una gomitata la quale significava: “Non farai mica cazzate? Quella è capace d’impestarti solo a guardarla!” Gli replicai con un gestaccio il quale significava: “Ehi, dico, m’hai preso per un maniaco? Non me la filerei manco se avessi una cassa di goldoni!” Così congedai la ragazza con un cortese “No grazie, signorina. Abbiamo ancora molta strada da fare.”
In realtà Sofia, nostra meta per il pernottamento, era ormai abbastanza vicina se non che, alla dogana di Dragoman, la burocrazia del patto di Varsavia (ben più asfissiante di quella della Jugoslavia, già allora piuttosto disponibile verso i turisti e la loro valuta pregiata) ci fece perdere un sacco di tempo. E non era tutto. Mentre attendevamo pazientemente i 
FIAT 125 controlli dei “graniciari” bulgari, dietro a noi si fermò una fiammante Fiat 125, metallizzata e con ruote in lega, su cui viaggiavano tre compari di Bologna. Per inciso, giudicai un po’ avventato affrontare un simile itinerario su un simile mezzo: infatti all’epoca la 125 - appena uscita sul mercato - era quel che si dice una gran bella macchina (o almeno tale mi sembrava), praticamente sostituiva la 1800 come ammiraglia Fiat e in più montava il primo bialbero di serie prodotto dalla casa torinese... In definitiva una figata: un vero peccato sottoporla a un collaudo tanto massacrante. In ogni caso i bolognesi furono preziosi, infatti da essi sapemmo che in Bulgaria la “carta verde” non valeva per cui era quanto mai opportuno stipulare un contratto temporaneo “Bulstrad”. “Socc’mel, ragazzi!” ci ammonì il capocomitiva “Fate mica pataccate! Compratevi la carta perché se non ce l’avete e fate un incidente vi mettono i maroni nel tritacarne anche se avete tutte le ragioni del mondo. Date retta a me: questi vi sbattono dentro e buttano via la chiave!” Quindi - onde evitare di finire ospiti di qualche “gulag” - stipulammo un contratto per il tempo sufficiente ad attraversare la Bulgaria, sia all’andata che al ritorno. Fortunatamente la spesa era modesta ma la stipula richiese il suo tempo, anche perché - ovviamente - tutti correvano ad assicurarsi, e non erano pochi, mentre l’impiegato era uno solo e compilava a mano certi complicatissimi moduli scritti in cirillico esaminando con stressante flemma balcanica passaporti, patenti e libretti di circolazione.
Oooh, alla buonora! Firma, controfirma, timbri, pagare e via. Riprendemmo la strada per Sofia che era ormai buio pesto e il traffico - “filtrato” dalle operazioni doganali - scarsissimo. Dopo qualche minuto fummo sorpassati dalla 125 dei bolognesi che ci salutarono con una strombazzata e s’allontanarono a tutta birra nell’oscurità. Non mi vergogno a dire che avvertii quasi un senso di smarrimento: dopo Dragoman la strada, peraltro abbastanza agevole, era quasi completamente priva di centri abitati, mentre il traffico si limitava a qualcuno dei soliti scassatissimi camion carichi non si sa di che, i quali andavano non si sa dove.
FIAT 500 TOPOLINO GIARDINIERA Tuttavia non mancarono due incontri inattesi: il primo era una Fiat 500 “Topolino” giardiniera in legno, un modello estremamente raro anche nell’Italia dell’epoca. Quando, uscendo da una curva, mi si parò davanti l’inconfondibile portiera posteriore in listelli e faesite, pensai che la stanchezza mi desse le traveggole. Invece no: dopo essermi scaccolato gli occhi vidi che si trattava proprio di quel che sembrava; solo il cielo sa come diavolo fosse finita in Bulgaria una Fiat 500 “Topolino” giardiniera in legno, eppure c’era finita. Visto che procedeva a 30 km/h, la sorpassai lentamente e ogni dubbio residuo si dileguò: evidentemente il mercato delle vetture usate già allora aveva dei canali misteriosi e insondabili per noi utenti normali. L’unica differenza rispetto all’originale era un terzo faro abbagliante in mezzo alla calandra.
VELOREX 1967 Il secondo mezzo che attirò la nostra attenzione fu un incredibile “ombrello” su tre ruote che procedeva spernacchiando e sfumazzando a più non posso: si trattava del famigerato “Velorex”! Fu quella l’unica volta che lo vidi “in carne e ossa”. Dominando lo shock, sorpassai in tutta fretta quella nefandezza con il non infondato timore che ne sbucasse Dracula e ci dissanguasse. Finalmente un cartello giallo contenente cinque caratteri cirillici ci fece sospettare d’essere giunti a Sofia (Che pitocchi! Almeno per la capitale potevano usare la doppia grafia) e ne avemmo la conferma quando imboccammo un vialone semideserto, illuminato da lampade al sodio e percorso soprattutto da vecchi tram che sferragliavano sui binari al centro della larghissima carreggiata. Dopo qualche centinaio di metri una freccia con il simbolo internazionale dei campeggi indicava una straducola che s’addentrava nell’estrema periferia della capitale bulgara: dopo qualche altro centinaio di metri tra cupi casermoni stalinisti e casupole risalenti forse all’epoca dell’impero ottomano, arrivammo al camping, dove fummo accolti da un “Perché, perché la domenica mi lasci sempre sola...” sparato a tutto volume da un simpatico giovanotto locale il quale - ancor prima dei documenti - ci chiese in perfetto italiano se avevamo qualche disco di Rita Pavone da vendergli... Chissà se “Ritìn” ha mai saputo d’avere un fan tanto affezionato nei sobborghi di Sofia. I tre bolognesi ci attendevano alla reception assieme al giovanotto e c’informarono che mettere qualcosa sotto i denti avrebbe significato andare in centro, a parecchi chilometri di distanza e per di più, data l’ora, senza la sicurezza di trovare un locale aperto; di conseguenza accettammo volentieri da loro alcune fette di pagnotta e un mezzo vasetto di marmellata che ci vennero cortesemente offerti. Misera la cena, misero il camping ma - rispetto a quello della notte precedente - ci sembrò un Eden: se non altro i servizi erano agibili, o quasi, e il silenzio - una volta convinto il giovanotto a spegnere l’altoparlante - regnava sovrano. Insomma quanto bastava e avanzava per farci una dormita della quale avevamo assoluto bisogno.
Purtroppo l’indomani fummo risvegliati dal borbottio dei nostri stomaci nuovamente e desolatamente vuoti. Il camping non disponeva d’uno spaccio ma appena fuori c’era una specie di “General Store” tipo Far West che vendeva un po’ di tutto: secchi, zappe, fazzoletti, corde eccetera (mancavano solo le Colt e relative munizioni), peccato che - quanto ad alimentari - non fosse altrettanto fornito, forse per le ben note inefficienze distributive del sistema: in pratica solo la solita marmellata e uno strano latticino - che ricordava il “Feta” greco - contenuto in una bacinella aperta protetta da una retina antimosche (specie animale assai diffusa nel negozio): il negoziante ce ne fece assaggiare un pezzetto e lo trovammo gradevole per cui ne comprammo una buona porzione, oltre a un barattolo di marmellata. Forse a causa della fame non facemmo troppo caso al fatto che il negoziante, dopo averci servito, scordò di rimettere la retina antimosche. Chissà se l’aveva scordata anche in precedenza? Tanta era la fame che ci dicemmo “Vabbè, quel che non strozza ingrassa”... Però nel negozio non tenevano pane. Ricorrendo al linguaggio dei gesti, il negoziante c’informò che, in fondo a un viottolo somigliante a una pista di motocross, c’era un fornaio; dopo aver ulteriormente maltrattato le sospensioni della 500 su quel dannato viottolo, giungemmo dove le case finivano e s’apriva la campagna. Smontammo dalla macchina e ci guardammo dattorno imprecando prima contro il negoziante poi contro noi stessi perché, forse, non avevamo capito un cazzo: fatto sta che di panifici non c’era manco l’ombra... Ma ignoravamo le risorse del sistema: infatti un tizio notò la nostra perplessità, s’affacciò a una finestra dell’ultima casupola prima dei campi e ci mostrò due belle pagnotte ancora calde. Evidentemente in Bulgaria avevano già inventato il lavoro a domicilio e quel tizio faceva il fornaio a domicilio, un esempio che qualche piccolo spazio alla libera iniziativa il sistema lo concedeva. Risolto - anche se in modo sommario - il problema del vettovagliamento, ci avviammo verso il centro della capitale bulgara.
Sofia non è una brutta città: imita le metropoli austroungariche con in più qualche reminiscenza russa e ottomana, ma non ha niente di particolarmente artistico o d’antico (anche la grande cattedrale ortodossa Aleksandăr Nevski è di costruzione relativamente recente), tuttavia la trovai pregevole dal punto di vista urbanistico, caratterizzata com’è da larghi “prospekt” rettilinei e da vaste aree a verde che s’addentrano fino in centro. Peccato che, all’epoca, fosse contrassegnata dal tipico “grigiore” del socialismo reale. In proposito formulo una personale ipotesi a carattere storico/politico: la Bulgaria fu il più docile e fedele alleato dell’URSS; mentre tra “Primavera di Praga”, rivolta ungherese, sommosse in Polonia e via dicendo, altri stati satelliti diedero a Mosca seri grattacapi, la Bulgaria se ne rimase buona e tranquilla fino alla caduta del comunismo. Da un lato la cosa evitò che il paese subisse il “bastone” (cioè l’invasione da parte di truppe sovietiche in assetto di guerra) ma non ebbe nemmeno il beneficio della “carota” (ossia i quattrini che Mosca sganciò ai vari dittatorelli degli stati satelliti più turbolenti affinché, passate le sommosse, la gente si desse una calmata). Morale: la Bulgaria, già di per sé priva di grandi risorse, già colonia dell’Impero Ottomano, già mal governata anche prima del comunismo, rimase il più povero tra i paesi satelliti... e si vedeva.
Usciti dalla capitale il senso di squallore s’accentuò; peccato perché il paesaggio era bello e rilassante, simile a quello della Francia centrale: dolci colline, boschi, campi di rose, fiumi e villaggi... solo che i villaggi apparivano malinconici, cadenti, quasi abbandonati. Ogni tanto - quando meno te l’aspettavi - da dietro una curva appariva un albergone o un ristorantone dalle linee pretenziosamente ultramoderne, insomma tipiche “spennoteche” per turisti con valuta pregiata o sedi riservate ai gerarchi di regime. Ovviamente li evitammo, date le modeste risorse economiche di cui disponevamo. Di quando in quando la statale fiancheggiava strade ferrate su cui transitavano pittoreschi locali trainati da un’asmatica vaporiera e formati da cinque o sei carrozze rugginose, di quelle antiche con il terrazzino davanti e dietro: l’ideale per uno spaghetti-western. La statale era abbastanza scorrevole, però - nei numerosi centri abitati - l’asfalto era sostituito da un micidiale pavé degno della Parigi-Roubaix e ciò costringeva ad altrettanto numerosi rallentamenti che allungarono i tempi: una vera disdetta perché lo scarso traffico avrebbe consentito medie superiori (anche se non di molto perché la cinquecentina più di tanto non poteva). Molto frequenti erano i cocomerai, tanto che un bel momento comprammo un cocomero: non sapeva di niente, una vera fetenzìa; in seguito venni a sapere che tutti i cocomeri bulgari erano così e che, da quella parti, s’usava addolcirli con zucchero a velo... Ancora mi chiedo se per caso non m’hanno rifilato una panzana. Comunque, mentre
ZAZ 965compravamo il cocomero, uno sbirro scese da una ZAZ 965 gialla della  Milizia e, tutto sorridente, ci salutò porgendoci un bigliettino nel quale - in quattro o cinque lingue - si raccomandava una guida prudente; qualche tempo dopo, nei pressi di Plovdiv, ci fermammo nuovamente per necessità “idrauliche” connesse all’ingestione del cocomero e, appena usciti da dietro un cespuglio, riecco un’altra ZAZ gialla con annesso sbirro, il quale, anche lui sorridente, ci chiese se eravamo in avaria... Per farla breve, ogni volta che ci concedevamo una sosta, saltava fuori un gendarme con una scusa o con l’altra. Chissà, forse qualcuno della polizia politica ci aveva notato e - sospettandoci spie capitaliste - aveva allertato le varie pattuglie lungo la strada. Del resto si sa che in certe nazioni la polizia politica funzionava sin troppo bene. L’ultimo villaggio prima della frontiera turca era forse il più desolato dell’intero percorso: si chiamava Captan Andreevo ma non chiedetemi chi diavolo fosse ‘sto capitano perché lo ignoro. Il solo pubblico esercizio del villaggio era un’osteria in cui gli unici esseri viventi erano un oste dall’aria nient’affatto pulita e nugoli di mosconi grandi come pipistrelli. Morale: “Tira d’un büs la cinghia e tiremm’ inanz’”, vorrà dire che ci rifaremo in Turchia.
Poco più avanti c’era la frontiera e i doganieri bulgari ci lasciarono transitare senza degnarci d’uno sguardo ma, pochi metri più avanti, trovammo un assembramento d’autoveicoli del tutto imprevisto: perbacco, da Sofia a Captan Andreevo avevamo trovato un traffico molto scarso, e allora da dove diavolo saltavano fuori? Ebbene, se prima ho lamentato la lentezza delle pratiche per entrare in Bulgaria, quelle per entrare in Turchia si rivelarono, se possibile, ancor più esasperanti e ciò era causa dell’assembramento. Almeno i bulgari erano comunisti e si sa che dalle loro parti... Ma la Turchia era un paese occidentale, un membro della NATO, mi consenta!  Il fatto è che ai doganieri turchi non fregava una mazza delle persone che entravano nel paese ma - com’ebbi modo di capire - erano ossessionati dall’importazione clandestina di automezzi, per cui era a questi che dedicavano la massima attenzione. Dopo lunga attesa arrivò l’appuntato Mustafà, il quale chiese passaporto, patente, libretto e carta verde, poi girò attorno alla vettura, controllò la targa posteriore, controllò che quella anteriore corrispondesse, controllò il numero di telaio (lui sapeva dov’era, io no), controllò che corrispondesse a quello scritto sul libretto, scrisse qualcosa su un modulo, scrisse qualcos’altro sul passaporto e disse “OK, sir”... Allora possiamo andare? “No, prima dovete passare dal vicebrigadiere Terim a mettere le marche, sir.” Quali marche? “Quelle da appiccicare sul passaporto, sir”. Il vicebrigadiere Terim appiccicò le marche e ci chiese dei soldi... “No turkish liras? No problem, sir. Show me your money, please”. Estrassi di tasca un pugno di monetine miste: lire italiane, dinari iugoslavi, lev bulgari... Fortunatamente lì accettavano di tutto, moneta metallica compresa. Il brigadiere Terim fece un rapido calcolo mentale, piluccò in mezzo alle monetine la somma dovuta e disse “OK, sir”... Allora possiamo andare? “No, prima dovete passare dal maresciallo Hakim per i timbri, sir.” Quali timbri? “Quelli per annullare le marche e per certificare che l’auto entri regolarmente in Turchia, sir.” Il maresciallo Hakim, nella sua guardiola, esaminò attentamente le carte compilate dall’appuntato Mustafà, le marche appiccicate sul passaporto dal brigadiere Terim, la carta di circolazione eccetera, poi digrignò qualcosa che doveva significare “Merda! Quei due cretini hanno sbagliato tutto!” e aggiunse: “Meglio che vada negli uffici doganali a parlare con l’ispettore Gulkan, sir”.
L’ispettore Gulkan ci accolse nel suo ufficio arredato con un ritratto di Atatürk, con montagne di scartoffie risalenti ai tempi di Solimano il Magnifico e con un enorme ventilatore che non serviva ad alleviare la pesante atmosfera che vi regnava. Nuovo esame di documenti, quindi l’ispettore Gulkan digrignò qualcosa che doveva significare “Sono circondato da idioti! Oltretutto il maresciallo Hakim s’è già scolato otto birre”, poi compilò un modulo, appose un ennesimo visto sul passaporto e disse “Vogliate scusare, sir. Tornate dal maresciallo e ditegli che è tutto OK.”
“C’era da aspettarselo! L’ispettore pensa sempre alle donne... Tutto OK un cazzo, sir! Manca ancora il timbro S/15 apposto in calce alla pagina dove figura il numero di telaio” così disse - almeno credo - il maresciallo Hakim... Adesso viene a dirmelo? “Lei non me l’ha chiesto, sir” E il timbro S/15 dove diavolo lo trovo? “Lo tiene l’ispettore, sir, ma” aggiunse il maresciallo guardando verso gli uffici “quel poltrone è appena andato in pausa pranzo e forse tornerà tra tre ore, sir.” A quel punto non resistetti e - mi duole ammetterlo - mi sfuggì una tipica esclamazione veneta, una di quelle che chiamano in causa la divinità. Al maresciallo Hakim tale esclamazione non doveva suonare affatto nuova perché mi lanciò un’occhiataccia, nondimeno fu molto comprensivo; compilò un’ennesima carta, la timbrò, la firmò, me la fece controfirmare e disse severo: “E va bene, per questa volta passi ma si ricordi, sir, che se non riconsegnerà questa carta quando lascia la Turchia, la macchina le verrà sequestrata e lei sarà arrestato... Potete andare.”
Ovviamente ho un po’ “colorito” la vicenda e i nomi sono del tutto inventati, ma le cose andarono sostanzialmente così; le maggiori difficoltà furono dovute al fatto che i doganieri turchi parlavano bene l’inglese ma non capivano un piffero se gli rispondevi nella stessa lingua. Inutile peraltro specificare che - in uscita dalla Turchia - nessuno mi chiese la carta compilata dal maresciallo Hakim né si degnò d’esaminare le sette od otto pagine del passaporto piene di timbri, bolli, firme e visti apposti all’ingresso.
Ed eccoci finalmente in terra turca... Oddìo non che fosse il massimo ma dopo la desolazione della Bulgaria ci s’aprì il cuore. Certamente la Turchia non si presentava come un paese ricco e il paesaggio era molto più monotono di quello bulgaro: in pratica solo campi e campi di grano a perdita d’occhio, però vi si percepiva una vitalità ben maggiore. Il primo centro incontrato, Edirne, era una cittaduzza a breve distanza dal confine, dominata da una maestosa moschea disegnata dal grande architetto Sinan (progettista di molte splendide moschee costantinopolitane). Dopo il torpido squallore dei centri bulgari Edirne ci sembrò quasi Las Vegas: locali pieni di gente (soprattutto uomini, ovviamente) che beveva caffè, birra, Coca Cola e raki (ossia anice forte, tipico liquore turco), fumava il narghilè, leggeva il giornale, giocava a scacchi o a “backgammon” (gioco molto diffuso nei Balcani), chiacchierava del più e del meno, mentre  vecchi juke box sparavano a tutto volume nenie orientali: niente di speciale, intendiamoci, ma un altro pianeta rispetto alla vicina Bulgaria.
INNOCENTI LAMBRETTA 150 LI 1965 E poi negozi pieni di merce - magari modesta ma comunque abbondante - banche, insegne pubblicitarie, tamarri su Lambrette spernacchianti,  facoltosi borghesi in “Anadol”, pensionati che sgranavano rosari islamici, tronfi funzionariotti governativi con borsa porta scartoffie e ANADOL A1con un look a metà tra Pepé Le Moko e “meno male che Silvio c’è”... Insomma quel che ci voleva per risollevare lo spirito e consentirci d’affrontare gioiosamente l’ultimo tratto verso la “Perla del Bosforo”, praticamente un lungo rettilineo piuttosto trafficato (anche da mezzi a propulsione animale) che tagliava a metà la terra un tempo chiamata Rumelia Orientale...
Che dire di Istanbul? Se stravedete per le cittadine elvetiche linde, pulite, ordinate, non andateci. Se vi dà fastidio qualche cumulo di “monnezza” scaricata in un elegante boulevard, non andateci. Se trovate inammissibile che un gregge di capre con tanto di pastori, cani e campanacci invada un’importante via centrale (tipo Via del Corso a Roma, tanto per capirci), non andateci. Se detestate il traffico caotico che soffoca ogni angolo della metropoli ventiquattr’ore su ventiquattro, non andateci.
Ma se sapete emozionarvi davanti a una scenografia urbana incomparabile, se testimonianze storiche e culturali stratificatesi nei millenni non riportano alla vostra mente solo i quattro che beccavate nelle interrogazioni di storia, se sapete immergervi in un cosmopolitismo unico senza provare assurdi sensi di superiorità o, peggio, di xenofobia, se i tesori d’arte insoliti e straordinari v’interessano più delle vetrine di Prada o dei saloni BMW, se, infine, ogni tanto vi piace sentirvi “cittadini del mondo”, andateci: troverete Istanbul una meta turistica di prim’ordine e riuscirete a tollerare il traffico caotico, le capre per strada, i nugoli di scugnizzi petulanti che cercano di rifilarvi qualcosa per una manciata di piastre; perfino la monnezza non vi darà troppo fastidio, tanto più che si tratta di monnezza “povera” (tipo cartacce, bucce di cocomero, calcinacci, verdura fradicia), non di monnezza “ricca” (tipo televisori, divani, stampanti, water) e - come in altri casi - la povertà ha un decoro che la ricchezza spesso non ha. Naturalmente parlo di Istanbul nel 1967, quando faceva 1,6 milioni d’abitanti. Adesso supera gli 11 milioni e i nuovi cittadini sono per la maggior parte “campesinos” immigrati dall’Anatolia, spesso estranei alle tradizioni di laicità e internazionalismo caratteristiche della Istanbul che conobbi, in più sospetto che i dieci milioni di nuovi costantinopolitani dimorino prevalentemente in “banlieue” a confronto alle quali Quarto Oggiaro o Secondigliano sono siti celestiali; tuttavia chi l’ha visitata di recente conferma sostanzialmente l’impressione che ne ebbi io ben quarantatre anni orsono: Istanbul è una città affascinante come poche.

E giunto a Istanbul mi fermo. Avrei ancora parecchi appunti riguardanti il soggiorno a Istanbul e il viaggio di ritorno, non meno allucinante di quello d’andata, ma temo d’averla già tirata troppo per le lunghe. Se tuttavia a qualcuno interessa (e se questo qualcuno ha un po’ di pazienza) vedrò di continuare il resoconto; per il momento mi limito a dire che la 500 non ebbe il minimo inconveniente e ci riportò a casa sani e salvi. (continua?)”

[Prima Parte]                                                                       [Terza Parte]

Recensione inviata da Luciano De Dionigi di Padova

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8 Commenti

ANhIMA ha detto...

Credo che la 3a puntata sia un obbligo morale caro sig. Luciano, non può lasciarmi in questo modo! :)

motodimerda ha detto...

esatto
mio caro mezzo petorex
prosegua prosegua..........

Anonimo ha detto...

Luciano, bellissimo racconto!!Attendo nuove puntate....

M.F. ha detto...

Come sarebbe a dire che finisce qui? Dilungati pure.

P.S.: Il pezzo sui doganieri turchi è fantastico.

luciano ha detto...

Cari amici
Non vorrei essere scambiato per un divo che ama farsi attendere, tuttavia v'invito a pazientare.
Doveroso chiarimento: non vorrei che qualche turco se la prendesse per quella che vuole essere solo una bonaria presa in giro (e il cielo sa quanto anche noi italiani meritiamo d'essere presi in giro!).
In realtà un viaggio in Turchia rimane molto piacevole (testimonianze recenti) anche per la cordialità dei suoi cittadini, specie i costantinopolitani DOC.
Si tratta, come sempre, d'accettare la loro realtà.

M.F. ha detto...

Se qualche turco si offende, la cosa migliore che può fare è scrivere qualcosa di umoristico sugli italiani. Il materiale non gli manca.
Comunque il doganiere è un archetipo comico universale, a prescindere dalla nazionalità. Dicevo che il pezzo sui doganieri è fantastico per lo stile. Sembra scritto da J. K. Jerome.

motodimerda ha detto...

tranquillo se un turco s incazza gli offri da fumare.........

luciano ha detto...

Devo confessarlo: Jerome, Wodehouse e il nostro Guareschi i sono modelli che, molto maldestramente, cerco d'imitare.

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